Il previsto annuncio della seconda candidatura alla Casa Bianca del 77enne senatore “democratico-socialista”, Bernie Sanders, è stato accolto questa settimana da un entusiasmo diffuso negli ambienti progressisti americani e della sinistra del partito di opposizione a Washington. Nell’immaginario di milioni di elettori, Sanders è infatti portatore di un messaggio di cambiamento relativamente radicale che, pur apparendo tale solo in confronto alla realtà politica ufficiale degli Stati Uniti, trova terreno fertile in un clima sociale incandescente e segnato dalla crescente opposizione alla deriva neo-fascista dell’amministrazione Trump.

 

Questi fattori che caratterizzano il panorama americano sono determinanti per comprendere sia il ruolo della nascente candidatura alla presidenza di Sanders sia le sue possibilità di aggiudicarsi le primarie democratiche ed, eventualmente, di conquistare l’ingresso alla Casa Bianca.

 

 

Nonostante una retorica e un programma che promettono una rottura netta con le politiche di classe che hanno generato una delle società più inique del pianeta, Sanders rappresenta di per sé una minaccia trascurabile per la classe dirigente tradizionale e i grandi interessi economico-finanziari del paese. La sua sostanziale lealtà al sistema e il carattere innocuo della “rivoluzione” prospettata nella campagna elettorale del 2016 erano d’altra parte risultate chiare con il sostegno garantito a Hillary Clinton una volta perse le primarie e malgrado la realtà di un partito i cui vertici avevano manovrato clandestinamente per favorire il successo dell’ex segretario di Stato.

 

I suoi precedenti sono dunque una garanzia per l’establishment democratico e non solo, ma è probabile che la sua candidatura sarà nuovamente vista con apprensione anche nel partito sotto le cui insegne intende presentarsi pur non essendone membro. Ciò che continua a spaventare di Sanders nelle stanze del potere di Washington e dei consigli di amministrazione delle corporation americane è il possibile saldarsi di un’agenda e una prospettiva anche solo vagamente “socialiste” alle spinte anti-sistema provenienti dal basso e, negli ultimi mesi, osservabili tra l’altro in ondate di scioperi con una frequenza e una partecipazione insolite.

 

Su queste dinamiche sociali e sull’impopolarità del presidente, Sanders ha già dimostrato di volere puntare le proprie carte per il 2020. Nell’annuncio ufficiale che ha lanciato la sua campagna, il senatore del Vermont ha attaccato frontalmente Trump e la sua agenda, mettendo da parte anche le timide aperture che aveva mostrato dopo il voto del novembre 2016 sulla base delle illusorie promesse di stampo nazionalista dell’allora neo-presidente per risollevare la “working-class” americana.

 

Al di là delle convinzioni e dell’integrità morale e politica di Sanders, il nodo irrisolto della sua candidatura rimarrà quello emerso nella precedente corsa alla Casa Bianca. Vale a dire la possibilità di trasformare in senso progressista la società americana tramite un partito, come quello Democratico, che è in sostanza espressione degli interessi dell’alta borghesia e dei poteri dello stato rappresentati dai vertici militari e dell’intelligence. Questa considerazione si collega poi al ruolo stesso di Sanders e, in generale, dei politici di “sinistra” emersi storicamente dall’interno del Partito Democratico, ovvero quello di veicolare le tensioni sociali verso uno sfogo sicuro che eviti qualsiasi genere di destabilizzazione del sistema.

 

Dopo il rapido passaggio al campo di Hillary nella campagna per le presidenziali del 2016, Sanders aveva assicurato che le pressioni del movimento che lo aveva sostenuto su scala nazionale avrebbero spinto il Partito Democratico verso sinistra. A due anni di distanza, invece, le cose non sono andate esattamente in questo modo. La base elettorale democratica si è in effetti spostata considerevolmente a sinistra e, di riflesso, una nuova generazione di membri del partito ha intrapreso la strada segnata da Sanders, a cominciare dall’astro nascente Alexandria Ocasio-Cortez. Se si osservano tuttavia le scelte più importanti e le posizioni ufficiali del Partito Democratico la realtà appare ben diversa.

 

La principale campagna attorno a cui i leader democratici hanno combattuto a partire dall’elezione di Trump, il cosiddetto “Russiagate”, è ad esempio di natura profondamente reazionaria. La vicenda delle presunte collusioni con Mosca ha inoltre prodotto un’atmosfera all’insegna del maccartismo che, proprio con i democratici in prima fila, si è tradotta da un lato in una caccia alle streghe contro chiunque metta in discussione gli orientamenti anti-russi dell’establishment di Washington e, dall’altro, in un’offensiva contro le “fake news” che sconfina sempre più nella censura.

 

Il Partito Democratico ha fatto e continua inoltre a fare pressioni sull’amministrazione Trump per dare un’impronta più decisa alla politica estera USA, sollecitando tra l’altro un atteggiamento aggressivo nei confronti di Russia e Cina e la permanenza delle forze di occupazione illegale in Siria. Gli stessi leader democratici hanno anche fatto ben poco per mobilitare forze popolari che, pure, nel recente passato avevano appoggiato in massa il “democratico-socialista” Sanders, per bloccare le misure più reazionarie e classiste dell’amministrazione Trump, da quelle contro l’immigrazione al taglio alle tasse per i redditi più elevati.

 

Anche la stessa scelta di appoggiare in pieno la battaglia apparentemente per la parità di genere e contro le discriminazioni razziali si è trasformata da subito in un’operazione dai contorni anti-democratici. Riassunta nello slogan “#MeToo”, questa campagna si è concretizzata in una clamorosa negazione del diritto basilare a un giusto processo per gli accusati di abusi o molestie, mentre è servita anche a dirottare frustrazioni e tensioni ampiamente diffuse tra la popolazione dalle questioni economiche e sociali a quelle di razza e di genere.

 

Da parte sua, Bernie Sanders ha aderito a praticamente tutte queste iniziative negli ultimi due anni e, oltretutto, nelle poche occasioni in cui ha espresso il proprio pensiero in merito alle priorità di politica estera, si è in buona parte allineato ai principi guida dell’imperialismo americano.

 

La sua candidatura dovrà comunque superare ostacoli non indifferenti, primi fra tutti quelli che gli verranno posti dal Partito Democratico. Le linee d’attacco dell’establishment del partito nei suoi confronti saranno principalmente due. La prima ha a che fare proprio con le presunte carenze del senatore del Vermont nell’intercettare i consensi delle donne e delle minoranze. Accuse di questo genere gli sono infatti già state rivolte e sono appunto in linea con la fissazione del Partito Democratico sulle questioni identitarie.

 

L’altro fattore con cui Sanders dovrà fare i conti sono gli attacchi che lo dipingeranno come troppo a sinistra per riuscire a intercettare la fetta di elettorato moderato presumibilmente decisivo per vincere un’elezione. In questa direzione si stanno già muovendo i repubblicani e, in particolare, il presidente Trump. Il suo recente delirio anti-socialista in un discorso tenuto in Florida ha avuto almeno in parte proprio implicazioni elettorali, vista la probabile strategia del Partito Repubblicano per il 2020 di dipingere – assurdamente – i democratici come pericolosi estremisti di sinistra.

 

La strada di Sanders verso la nomination democratica sarà quindi ancora più complicata rispetto al 2016. Un’organizzazione su scala nazionale già operativa, assieme a un bacino di sostenitori e piccoli finanziatori costruito nella precedente campagna e in larga misura intatto, costituiscono però una base di partenza su cui nessun altro dei candidati democratici già ufficialmente in corsa può almeno per il momento contare.  Per dare un’idea del fermento creato dalla personalità politica di statura nazionale più vicina al socialismo che oggi gli Stati Uniti possono esprimere, Sanders ha raccolto ben 4 milioni di dollari da quasi 150 mila donatori nelle sole dodici ore seguite all’annuncio della sua candidatura.

 

Da valutare per gli equilibri nel Partito Democratico in vista delle primarie, lontane ancora quasi un anno, sarà infine il peso che avranno una serie di proposte-chiave che lo stesso Sanders aveva lanciato nel 2016 e che oggi sono state fatte in buona parte proprie da quasi tutti i candidati già emersi per la nomination del partito. Sanità pubblica e universale, stipendio minimo a 15 dollari l’ora, educazione universitaria gratuita e un piano per arrestare il cambiamento climatico, al centro della piattaforma elettorale di Bernie Sanders, saranno argomenti oggetto di dibattito tra i democratici ma, prevedibilmente, nessuno dei candidati sarà in grado di spiegare come trasformarli in iniziative concrete in un sistema bloccato e ostile a qualsiasi cambiamento in senso autenticamente progressista.

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