Una vero e proprio fuoco di sbarramento, alimentato con avvertenze e minacce all’indirizzo del governo, si è alzato contro la possibilità che l’Italia firmi il protocollo d’intesa del progetto One Belt One Road, da tutti generalmente definito come la nuova “Via della Seta”. Gli Stati Uniti hanno fatto immediatamente sentire la propria voce e subito sono intervenuti in loro sostegno alcuni esponenti della Unione Europea.

 

Ma cos’è One Belt One Road? E’ un piano di investimenti globali nato nel 2013 e al quale hanno aderito 67 paesi che hanno firmato il Memorandum d’Intesa. Gli investimenti ammontano a 8000 miliardi di Euro e, fino ad ora, il Pakistan è la nazione maggiormente coinvolta, con un investimento di 60 miliardi di dollari.

 

 

Il piano, che prevede la costruzione di infrastrutture come strade, ferrovie, porti, centrali elettriche, per poter supportare il volume degli scambi, si snoda su due direttrici principali da Est a Ovest, entrambe con sbocchi in Europa. Una terrestre che passa attraverso l’Asia Centrale e una marittima che attraversa l’Oceano Indiano, arriva fino in Africa e risale verso Nord attraverso il Mediterraneo. L’Italia sarebbe uno sbocco naturale di questa rotta e a tal proposito si prevede un forte investimento cinese per migliorare ed ampliare la ricettività del porto di Trieste.

 

La Cina svolgerebbe il ruolo di finanziatore del progetto e di prestatore di fondi. La convenienza di Pechino, oltre a quella di divenire definitivamente un referente di assoluto rilievo per lo sviluppo economico internazionale, risiede anche nella possibilità di scaricare le proprie eccedenze di prodotto e, nel contempo, divenire creditrice dei paesi indebitati.

 

Il progetto presenta vantaggi di merito e metodo tanto per l’economia come per le relazioni internazionali dell’Italia, tra cui il riequilibrio della bilancia commerciale con la Cina, ma il mantra utilizzato da USA e UE è che Roma dovrebbe rinunciarvi per fedeltà al campo atlantista. Ovvero, una partnership nella realizzazione di infrastrutture con finanziamenti di Pechino, rappresenterebbe una “grave minaccia”.

 

L’opposizione statunitense al progetto è scontata: sebbene malcelata da “raccomandazione”, ha il retrogusto amaro di un ordine che s’impartisce ad un proprio protettorato. Nello specifico si aggiunge anche un aspetto politico importante: l’Italia entra in un progetto di sviluppo economico internazionale che non è a guida statunitense, anzi, dagli Stati Uniti è avversato. Gli Stati Uniti non possono sopportare un simile progetto che, di fatto, li porrebbe in una situazione marginale in una importante porzione di mondo.

 

Washington è fortemente preoccupata da un Paese suo competitor politico e commerciale (e forse tra poco anche militare) che assume un ruolo strategico. Buffo però che l’allerta contro “l’espansionismo cinese” viene da chi, da oltre 70 anni, controlla  istituzioni monetarie internazionali, mercati, vie di comunicazioni, corridoi aerei e spazio, risorse principali di mare, suolo e sottosuolo e impone il proprio ruolo di gendarme mondiale a garanzia del suo dominio unipolare.

 

E’ anche per continuare a perpetrarlo che ha lanciato la campagna internazionale contro Huawei, accusata di essere un sofisticato strumento dello spionaggio cinese. In realtà, la gara per l’installazione e messa in opera della tecnologia 5G vede i cinesi in netto vantaggio tecnologico e, visto l’insieme degli ambiti nei quali la nuova Rete potrà essere utilizzata, la sconfitta tecnologica statunitense non sarà solo legata alle comunicazioni ma diverrà il segno di un sostanziale ribaltamento del primato tecnologico tra gli USA e il gigante d’Oriente.

 

L’allarme statunitense non ha nulla a che vedere con presunte ragioni di sicurezza, ammesso e non concesso che gli USA siano i garanti della sicurezza. Sì perchè in 243 anni di storia sono 221 gli interventi militari nei conflitti ai 4 angoli del pianeta e che, solo dalla fine della seconda guerra mondiale, ben 37 paesi hanno visto il loro suolo invaso dai soldati a stelle e strisce. Sicurezza appae dunque termine almeno improprio. Le sue preoccupazioni hanno invece molto a che vedere con la battaglia senza esclusione di colpi che Washington combatte contro la Cina, la Russia, l’India e tutte le economie emergenti.

 

Tenta di impedire che vi siano direttrici di sviluppo dei mercati che non siano sotto il loro controllo e che non versino il “pizzo” finanziario, cioè la quota che gli USA esigono per le transazioni in dollari. Quando i mercati e le relazioni si sviluppano a prescindere o anche in opposizione alla volontà statunitense, allora la questione cessa di essere economico-commerciale e, come per incanto, diventa di sicurezza nazionale.

 

Gli europei sono schierati contro l’adesione italiana, ma non si capisce dove sarebbe il problema: l’Italia - membro fondatore dell’Unione Europea - applicherebbe quello che la UE predica in tutte le salse, cioè la globalizzazione dei mercati e gli investimenti a geometrie variabili. Ma, evidentemente, a Bruxelles ritengono che siano opportunità riservate a Berlino o a Parigi. Dunque bene ha fatto Mattarella a stoppare le critiche ipocrite e le pressioni europee su Roma, ribadendo che non vi sono motivi di allarme e che l’Italia dispone già di una normativa che mette al sicuro il nostro modello di business.

 

Certo, i timori dei tecnocrati di Bruxelles si basano anche sul fatto che oltre alla maggior rilevanza sul piano geopolitico, i ricavi che l’Italia otterrebbe dall’adesione al progetto andrebbero a migliorare il nostro PIL, riducendo così, di converso, la morsa di Bruxelles sui nostri conti pubblici. E risultano almeno paradossali - se non sfacciate - le “preoccupazioni” europee per un eventuale indebitamento con la Cina giudicato “ad alto rischio” insinuando che Pechino sia un creditore spietato: basterebbe chiedere ai greci quale sia il rischio di avere dei debiti con la UE, come questo venga artificiosamente gonfiato e cosa si subisce in caso di parziale insolvenza, per trasformare i cinesi in una tranquilla esattoria.

 

Ma per Roma il principale ostacolo sono gli USA, impegnati da almeno un decennio in una guerra disperata per contenere le economie concorrenti e quella cinese in particolare, che più li spaventa. Per garantirsi il vantaggio strategico nel commercio internazionale utilizzano la finta dottrina dei diritti umani e le armi delle sanzioni per impedire proprio la libera concorrenza di cui si dichiarano a parole paladini.

 

Infatti, proprio a seguito dello sviluppo cino-russo hanno scelto di utilizzare la minaccia militare, i dazi e le sanzioni come strumenti principali nella loro politica. Dove le dimensioni dell’avversario lo consentono ci sono i piani di destabilizzazione interna, dove non è consigliabile arrivano  sanzioni commerciali e finanziarie. L’obiettivo è ribadire la leadership politico-militare ed utilizzarla per garantirsi vantaggi commerciali e finanziari senza i quali la loro economia, già claudicante, entrerebbe in una crisi irreversibile. Gli USA non offrono piani di intervento infrastrutturale a nessuna latitudine, tanto meno progetti di bonifica ambientale: il loro intervento è solo indirizzato ad impedire che altri paesi progettino opere e lavorino al proprio sviluppo. Incapaci di crescere, cercano d’impedire che crescano gli altri, per continuare ad esercitare il comando nel mondo unipolare.

 

La firma sul Memorandum d’Intesa non rappresenta di per sé un’adesione certa e definitiva all’intero progetto, ma la sola idea che l’Italia possa diversificare le sue relazioni commerciali e politiche e che sia inserita in una ipotesi di sviluppo globale è di per sé un buona notizia. Si deve andare avanti.

 

La Cina non può e non deve rappresentare un ostacolo “politico” allo sviluppo del nostro paese, che se proprio avesse voglia di alzare l’asticella della sua caratura democratica potrebbe cessare l’adesione alle sanzioni ad esclusivo vantaggio statunitense e tedesco e, magari, solo per fare un esempio, ritirare le sue forniture di armi a Ryad per cominciare a fermare il genocidio in Yemen.

 

La prossima settimana Xi-Jinping sarà a Roma per colloqui al più alto livello. Che si arrivi alla vigilia della visita in Italia del Presidente cinese con l’ipotesi dell’adesione al memorandum ancora in piedi è una buona notizia. La Lega, nella migliore tradizione della destra italiana, si finge “sovranista” ma prende ordini da Washington persino nei dettagli. I 5 Stelle sembra vogliano mantenere il punto, ma Di Maio è atteso a Washington, dove lo attendono minacce e richiami all’obbedienza. Dunque è possibile che sull’iniziativa possano esserci contraccolpi interni alla maggioranza di governo. Ma siamo talmente poco abituati ai sussulti di interesse nazionale che ci sembra di cogliere qualcosa di buono anche quando il nulla si sforza per distinguersi dal peggio.  

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