Il primo ministro Benjamin Netanyahu sembra essere riuscito a conquistare il suo quinto mandato alla guida di Israele, incassando nelle elezioni di martedì un successo di misura che è il risultato del clima avvelenato da razzismo, militarismo ed estremismo sionista abilmente coltivato in parallelo con l’aggravarsi della crisi politica e socio-economica dello stato ebraico. Netanyahu e il Likud hanno dovuto fronteggiare una minaccia serissima alla propria supremazia politica nel paese, ma, alla fine, le due principali opzioni offerte agli elettori erano apparse nella sostanza virtualmente indistinguibili.

 

 

La stampa israeliana e internazionale aveva caratterizzato il voto per il rinnovo del parlamento (“Knesset”) come una sorta di referendum su Netanyahu, invischiato in vari guai legali con l’accusa di corruzione e in attesa di una possibile incriminazione formale. Assediato in questo modo, il premier ha trasformato la campagna elettorale in una guerra contro i suoi nemici interni – dalla magistratura alla polizia, dai media alla “sinistra” politica – e liquidato anche formalmente l’impegno per un qualche accordo di pace con i palestinesi.

 

Emblematico di questa ulteriore accelerazione verso destra di Netanyahu è stata la promessa, fatta poco prima dell’apertura delle urne, di annettere la Cisgiordania a Israele in caso di successo elettorale. Questa minaccia è da collegare all’appoggio incondizionato ricevuto dall’amministrazione Trump e che ha costituito un altro tema elettorale promosso da Netanyahu. Dopo il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele a fine 2017, infatti, un paio di settimane fa la Casa Bianca aveva fatto un altro regalo al governo di Tel Aviv, riconoscendo anche le alture del Golan come territorio a tutti gli effetti israeliano.

 

Netanyahu aveva ad ogni modo di fronte l’avversario politico più minaccioso da molti anni a questa parte. L’ex capo delle forze armate israeliane, Benny Gantz, si era alleato con altri generali per dare vita al partito “Blu e Bianco”, in grado di registrare da subito un certo gradimento nei sondaggi. Dopo i primi exit poll di martedì sera, Gantz si era dichiarato prematuramente vincitore del voto, ma con l’arrivo dei risultati quasi definitivi nelle prime ore di mercoledì la situazione si è progressivamente spostata a vantaggio di Netanyahu.

 

Anche se per il conteggio finale serviranno ancora alcuni giorni, il Likud e il partito “Blu e Bianco” sembrano avere ottenuto entrambi 35 seggi sui 120 totali in palio. Il bottino degli alleati di estrema destra di Netanyahu è stato però tale da assicurare al primo ministro una maggioranza di circa 65 seggi e, quindi, la certezza di essere nuovamente incaricato dal presidente israeliano, Reuven Rivlin, di formare il prossimo esecutivo.

 

Gantz e le formazioni potenzialmente disponibili a partecipare a una coalizione con il leader dell’opposizione sarebbero invece ferme a 55 seggi. A pesare in maniera decisiva sulle ambizioni dell’ex capo di Stato Maggiore israeliano è stato soprattutto il naufragio del Partito Laburista, crollato dai 24 seggi ottenuti nel 2015, sotto le insegne della cosiddetta “Unione Sionista”, ai 6 di questa tornata elettorale. Il Likud, al contrario, ha fatto segnare un incremento di 5 seggi rispetto a quelli detenuti nel parlamento uscente.

 

I risultati del voto di martedì sono il riflesso di una campagna elettorale dominata dalle questioni della “sicurezza” di Israele, ovvero la promozione di politiche di apartheid nei confronti del popolo palestinese, e dei problemi giudiziari di Netanyahu. Opportunamente fuori dal dibattito politico sono stati invece i problemi economici e sociali della popolazione israeliana – araba ed ebrea – in un paese con un tasso di povertà superiore al 20% e, tra quelli avanzati, con un livello di disuguaglianze nella distribuzione delle ricchezze secondo solo a quello degli Stati Uniti.

 

Ancor più che nelle elezioni del 2015, il primo ministro Netanyahu ha dunque abbracciato posizioni a tratti apertamente razziste e fascistoidi, come hanno testimoniato gli attacchi retorici anti-arabi sia alla vigilia che durante le operazioni di voto. Nella giornata di martedì era emerso addirittura che il Likud aveva incaricato circa 1.200 sostenitori del partito di filmare gli elettori nei seggi di distretti a maggioranza araba, in teoria per impedire brogli ma in realtà per scoraggiare e intimidire i votanti. Netanyahu, poi, a febbraio aveva siglato un patto elettorale con il partito fascista Potere Ebraico, diretto discendente del partito Kach ferocemente anti-arabo di Meir Kahane, già messo fuori legge in Israele perché considerato un’organizzazione terrorista.

 

Di fronte alla radicalizzazione di Netanyahu e in presenza di casi giudiziari pendenti nei suoi confronti, gli avversari del premier si sono anch’essi adeguati alla deriva ultra-reazionaria del quadro politico israeliano. Il partito di Benny Gantz e la potenziale alleanza di governo alternativa a quella guidata dal Likud è stata frequentemente definita come di “centro-sinistra” dalla stampa di tutto il mondo, ma nella sostanza si è visto ben poco in essa di “centro” né, tantomeno, di “sinistra” nel corso della campagna.

 

La repressione dei palestinesi, l’espansione delle occupazioni illegali e l’insistenza nel condurre politiche regionali destabilizzanti sono stati principi fondamentalmente accettati a priori da entrambi i maggiori schieramenti. Quando ad esempio Netanyahu ha lanciato la promessa di annettere la Cisgiordania, Gantz si è rifiutato di condannare il premier, per poi assicurare un vago impegno a perseguire la pace con i palestinesi e, in caso di fallimento, prospettare un’iniziativa non dissimile da quella avanzata dallo stesso capo del governo.

 

Gantz e i suoi alleati avevano d’altra parte attaccato Netanyahu da destra in più di un’occasione durante la campagna elettorale. Quando qualche settimana fa la situazione a Gaza era apparsa di nuovo vicina alla guerra, l’ex generale israeliano e altri avevano espressamente criticato il primo ministro per non essere stato in grado di garantire la sicurezza di Israele e di mettere fine una volta per tutte alla minaccia di Hamas. In un’altra occasione, invece, Gantz aveva ostentato con orgoglio la campagna criminale del 2014 contro Gaza, quando egli stesso era a capo delle forze armate e il bilancio per i palestinesi era stato di oltre mille vittime, tra cui centinaia di bambini.

 

Le posizioni di Gantz non riflettono solo un’evidente predisposizione personale, ma anche un dilemma politico difficile da sciogliere. Il partito “Blu e Bianco” dei generali israeliani è stato cioè lanciato come soggetto politico alternativo al Likud con il sostegno dell’establishment militare e della “sicurezza nazionale”, preoccupato per la direzione intrapresa dal paese sotto la guida di Netanyahu, il quale ha di fatto portato all’isolamento e al discredito internazionale di Israele. Un paese, quest’ultimo, che fa dell’illegalità e dei crimini contro i palestinesi e i paesi arabi, come la Siria o il Libano, la propria ragione d’essere e che può agire nella completa impunità solo grazie all’appoggio incondizionato degli Stati Uniti.

 

Senza dubbio, settori della classe dirigente israeliana sentono che questa situazione sia insostenibile nel medio o lungo periodo e avevano perciò creato con un certo successo un’alternativa a Netanyahu, con l’obiettivo in primo luogo di rilanciare la farsa dei colloqui di pace con i palestinesi, ma solo come copertura internazionale per proseguire con le politiche repressive e anti-democratiche sul fronte domestico e regionale. Con queste premesse, la formazione guidata da Benny Gantz non aveva una sola possibilità di fare appello alle forze progressiste e di sinistra in Israele, orfane di un Partito Laburista spostatosi da tempo verso destra.

 

Se Netanyahu sembra avere sventato anche quest’ultima minaccia alla sua posizione, il prossimo futuro per il premier, che si appresta a diventare il più longevo della storia di Israele, non si prospetta privo di insidie. I procedimenti legali nei suoi confronti potrebbero infatti sfociare in incriminazioni formali e imbarazzanti processi penali. Non è da escludere comunque che il primo ministro possa finire per fare approvare un provvedimento di immunità nei suoi confronti, ma ciò avrebbe inevitabili ripercussioni politiche e lo metterebbe nella posizione di fare concessioni anche onerose ai propri alleati di governo.

 

Proprio il peso determinante dei partiti alleati del Likud nella formazione del nuovo esecutivo porterà a trattative complesse nelle prossime settimane. Sotto la spinta degli eventi interni e internazionali, inoltre, Netanyahu potrebbe essere esposto a pressioni crescenti, sia da parte dei suoi partner di coalizione, ma anche all’interno del Likud, nel quale la fazione che vede il premier con sospetto crescente aveva già portato una minaccia concreta alla sua posizione nelle primarie del partito tenute nel mese di febbraio.

 

Se il successo di Netanyahu nel voto di martedì era stato insolitamente in dubbio fino alla vigilia, ciò che sembrava già chiaro e che è stato in effetti confermato alla chiusura delle urne è in ogni caso la certezza che, di là della composizione del prossimo governo israeliano, le politiche militariste, discriminatorie e repressive sarebbero proseguite con un’intensità anche maggiore, grazie alla complicità di Washington e alla totale impotenza del resto della comunità internazionale.

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