In tre giorni a partire da sabato scorso, le forze armate israeliane hanno bombardato altrettanti paesi in Medio Oriente, facendo segnare una significativa e rischiosissima escalation nel confronto in atto con l’Iran. Anche se il territorio della Repubblica Islamica non è stato colpito direttamente, è proprio quest’ultimo paese a essere oggetto dell’attenzione del governo del primo ministro Netanyahu, la cui impunità per azioni e crimini che non potrebbero essere tollerati se commessi da altri leader continua a essere garantita dall’appoggio completo dell’amministrazione Trump.

 

Operazioni violente e da vero e proprio “stato canaglia” da parte di Israele all’estero sono tutt’altro che nuove. Dai leader palestinesi o della “Resistenza” agli scienziati nucleari iraniani, i morti assassinati dalle squadre della morte o dalle bombe di Tel Aviv sono stati moltissimi negli ultimi decenni, quasi sempre giustificati con la necessità di prevenire vere o presunte minacce alla sicurezza dello stato ebraico.

La frequenza delle incursioni in territori stranieri dei giorni scorsi è però insolita, al di fuori di un conflitto dichiarato, e indica la disponibilità di Netanyahu e dell’apparato militare israeliano a spingere la regione sull’orlo di un’altra guerra rovinosa. Tra gli obiettivi di questa strategia c’è come sempre il tentativo di provocare una reazione da parte dell’Iran, in modo da fornire a Washington la giustificazione per lanciare un attacco in piena regola contro il proprio principale rivale in Medio Oriente.

L’altro motivo del comportamento di Netanyahu è l’approssimarsi delle elezioni per il rinnovo del parlamento israeliano (“Knesset”), indette dopo l’impossibilità da parte del primo ministro di formare un governo di coalizione in seguito al voto dell’aprile scorso. Secondo i sondaggi, il Likud di Netanyahu e i suoi alleati di estrema destra sono a serio rischio di perdere la maggioranza assoluta a beneficio della coalizione “moderata” dell’ex numero uno delle forze armate, Benny Gantz. La consolidata strategia di Netanyahu è così quella di proiettare un’immagine di forza e intransigenza contro i nemici giurati di Israele, non solo i palestinesi ma, in questo frangente, anche e soprattutto la Repubblica Islamica.

Con queste premesse, e grazie all’appoggio americano, alla connivenza dell’Europa e dei media ufficiali in Occidente, la più recente campagna bellica israeliana era iniziata sabato notte con un’incursione contro la località siriana di Aqraba, a una quindicina di chilometri dall’aeroporto di Damasco, dove è situata una base di Hezbollah. Due membri del partito/milizia sciita libanese sono rimasti uccisi, secondo alcuni a causa di un errore di valutazione dell’intelligence israeliana, che riteneva l’obiettivo una struttura dei Guardiani della Rivoluzione iraniani. Più probabilmente, Tel Aviv ha voluto colpire deliberatamente Hezbollah, visti gli strettissimi legami che questa organizzazione ha con Teheran, tanto che fonti militari israeliane hanno parlato di un’operazione preventiva per impedire un presunto attacco iraniano con velivoli senza pilota (droni) sul territorio dello stato ebraico.

Se operazioni di questo genere in Siria sono state piuttosto frequenti negli ultimi anni, inconsueta è apparsa invece quella delle prime ore di domenica a Beirut. Israele viola in realtà regolarmente lo spazio aereo libanese per condurre operazioni illegali in Siria, ma azioni militari dirette contro questo paese sono state molto rare dalla fine della guerra del 2006 e, in particolare, da allora non era mai accaduto che a essere colpita fosse la capitale.

La ricostruzione dei fatti in questo caso è apparsa a tratti contraddittoria, anche se appare certo che si sia trattato di un’operazione condotta con due droni. Il primo è stato abbattuto facilmente mentre volava a bassa altitudine, mentre l’altro è esploso senza provocare danni significativi nei pressi di un edificio utilizzato da Hezbollah per le proprie attività mediatiche.

Questo episodio ha subito scatenato la reazione dei vertici di Hezbollah, il cui leader, Hassan Nasrallah, ha preso pubblicamente una durissima posizione contro Israele, affermando che non saranno tollerate altre invasioni dello spazio aereo libanese da parte di Tel Aviv. Nasrallah ha parlato minacciosamente di una “nuova fase” nei rapporti col nemico israeliano, ma poche ore più tardi, nella mattinata di lunedì, Netanyahu ha ordinato un’altra incursione in Libano. A farne le spese è stata questa volta una base del comando del Fronte Patriottico per la Liberazione della Palestina, nella valle della Bekaa, a est di Beirut.

Quest’ultima iniziativa ha fatto alzare le tensioni in maniera sensibile tra Libano e Israele. Lunedì, il presidente libanese Michel Aoun, alleato politico di Hezbollah, ha definito gli attacchi una “dichiarazione di guerra” e rivendicato il diritto di difesa da parte del suo paese. Aoun ha discusso dell’attacco israeliano con l’inviato speciale dell’ONU per il Libano, Jan Kubis, al quale ha spiegato come i fatti di domenica e lunedì rappresentino una violazione della risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che ha messo fine alla guerra dell’estate 2006.

La classe politica libanese si è compattata di fronte alla minaccia israeliana e lo stesso primo ministro sunnita, Saad Hariri, appoggiato dal regime saudita, da tempo sulla stessa lunghezza d’onda di Tel Aviv circa le questioni riguardanti l’Iran e il fronte della “Resistenza”, ha condannato gli attacchi e messo in guardia da una possibile escalation che potrebbe “sfociare in una spirale di violenza nella regione con conseguenze difficili da prevedere”.

A testimonianza dell’ampiezza delle iniziative di Israele, sempre domenica le forze armate di questo paese hanno operato una missione anche in Iraq. Il blitz, condotto nuovamente con un drone, ha colpito nella città occidentale di al-Qaim, dove è stato ucciso un comandante delle Unità di Mobilitazione Popolare, le milizie sciite vicine all’Iran che hanno svolto un ruolo cruciale nella sconfitta dello Stato Islamico (ISIS) in Iraq.

La conferma indiretta dell’operazione da parte israeliana è arrivata dalle parole di Netanyahu, suonate come una formulazione ufficiale della delirante dottrina del suo governo in materia di sicurezza. Il primo ministro, cioè, avrebbe dato carta bianca alle forze armate per colpire ovunque siano in preparazione trame e complotti, organizzati dalla Repubblica Islamica, contro Israele. Il tutto, prevedibilmente, senza che siano presentate prove concrete delle presunte minacce.

Il fanatismo di Netanyahu e dell’estrema destra israeliana rischia tuttavia di produrre conseguenze inaspettate non solo per Israele, ma anche per gli Stati Uniti. Ciò risulta chiaro soprattutto in relazione all’Iraq, dove sono stanziati tuttora almeno 5 mila soldati americani. Pubblicamente, la Casa Bianca ha espresso pieno sostegno a Tel Aviv per le operazioni del fine settimana, ma è facile ipotizzare che all’interno dell’amministrazione repubblicana e tra i vertici militari ci siano diffusi malumori per il comportamento di Netanyahu.

La seconda coalizione politica per numero di deputati nel parlamento di Baghdad, rappresentate di fatto delle Unità di Mobilitazione Popolare, ha infatti diffuso un comunicato lunedì che, oltre a definire l’incursione israeliana una “dichiarazione di guerra contro l’Iraq e il suo popolo”, ha chiesto esplicitamente il ritiro immediato delle truppe USA nel paese. In maniera corretta, la coalizione sciita ha evidenziato come l’attacco di Israele non avrebbe potuto avere luogo senza la copertura americana, visto che le forze di Washington controllano lo spazio aereo iracheno.

I malumori in Iraq per la presenza militare degli Stati Uniti sono già ampiamente diffusi e si stanno moltiplicando alla luce dei raid israeliani, di cui quello di domenica scorsa è solo l’ultimo di una lunga serie, anche se i precedenti non sono mai stati nemmeno velatamente riconosciuti dal governo di Tel Aviv. Solo nei mesi di luglio e agosto, sono stati registrati almeno altri tre bombardamenti contro obiettivi collegati alle milizie sciite filo-iraniane in territorio iracheno.

Malgrado l’allineamento totale tra USA e Israele, resta da verificare fino a che punto l’amministrazione Trump sarà disposta ad accettare le aggressioni di Netanyahu per assecondare un’agenda che, almeno in prospettiva, sembra dovere in parte divergere dagli interessi strategici americani. L’Iran, d’altra parte, ha già una profonda influenza sulla realtà politica, sociale ed economica dell’Iraq e una partenza forzata del contingente militare americano segnerebbe un ulteriore rafforzamento delle posizioni di Teheran in questo paese.

Oltre che sull’Iraq, le provocazioni israeliane rischiano di intralciare le manovre di Washington proprio in relazione alla stessa Repubblica Islamica. Più di un segnale nell’ultimo periodo sembra suggerire una qualche disponibilità da parte di Trump ad aprire uno spiraglio di dialogo con Teheran, come ha confermato la relativa indulgenza mostrata nel fine settimana dal presidente USA al G7 di Biarritz alla notizia della visita del ministro degli Esteri iraniano, Mohammand Javad Zarif.

Lunedì, poi, Trump e il presidente iraniano Rouhani hanno rilasciato dichiarazioni che fanno intravedere la possibilità addirittura di un faccia a faccia, forse in occasione della prossima assemblea generale delle Nazioni Unite a New York. Questi sviluppi devono essere stati accolti con estrema preoccupazione a Tel Aviv, tanto da contribuire probabilmente a convincere un Netanyahu sempre più disperato ad autorizzare una serie di iniziative militari in Medio Oriente per cercare di bloccare sul nascere qualsiasi ipotesi di soluzione diplomatica della crisi iraniana.

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