La crisi politica scatenata dalla Brexit è precipitata mercoledì con la decisione del primo ministro conservatore, Boris Johnson, di chiedere alla regina Elisabetta la sospensione per alcune settimane del parlamento di Londra, in modo da consentire al suo governo di portare a termine unilateralmente l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, con o senza un accordo con Bruxelles.

La mossa di Johnson era già nell’aria, dopo che la stampa d’oltremanica aveva rivelato nei giorni scorsi come Downing Street avesse appunto chiesto un parere legale al procuratore generale, Geoffrey Cox, circa la legittimità di una sospensione del parlamento a partire dai primi giorni di settembre.

 

Con questa decisione, l’ex sindaco di Londra e la fazione pro-Brexit della classe dirigente britannica intendono rendere quasi impossibile la discussione e l’approvazione in parlamento di una legge che impedisca al governo di far uscire il Regno Unito dall’UE senza un’intesa che ne stabilisca i limiti e le condizioni.

Una misura di questo genere era già stata introdotta mesi fa per legare le mani al governo di Theresa May e ciò è quanto si erano impegnati a ripetere i rappresentanti dell’opposizione martedì in una riunione tenuta a Londra. Il loro proposito era quello di assicurare un rinvio della Brexit, attualmente prevista per il 31 ottobre, se Johnson non fosse stato in grado di ottenere e fare approvare un nuovo accordo con l’Unione Europea.

Trascinando ora la regina Elisabetta in una crisi costituzionale a tutti gli effetti, il primo ministro conservatore si propone di far chiudere il parlamento dal 9 settembre al 14 ottobre, giorno in cui la stessa sovrana terrà in aula il suo tradizionale discorso, nel quale viene esposto il programma del governo. I tempi a disposizione dei deputati britannici per approvare una misura che eviti una Brexit senza accordo diventano così strettissimi. Il parlamento tornerà a riunirsi al termine della sosta estiva solo il 3 settembre, mentre, dopo la sospensione e il discorso della regina, rimarranno a malapena una decina di giorni di lavori prima della data fissata per l’uscita dall’UE, con ogni probabilità insufficienti a mandare in porto un provvedimento che leghi le mani a Boris Johnson.

Le implicazioni anti-democratiche della decisione presa mercoledì dal primo ministro britannico sono più che evidenti e molti leader sia dell’opposizione sia dell’ala anti-Brexit o favorevoli a una Brexit “morbida” nel Partito Conservatore hanno subito denunciato il colpo di mano. Particolarmente dura è stata la reazione dello “speaker” della Camera dei Comuni, il conservatore John Bercow, il quale ha avvertito che “chiudere il parlamento sarebbe un’offesa contro la democrazia e i diritti dei deputati come rappresentanti eletti del popolo”. Bercow ha aggiunto che la sospensione serve a “impedire al parlamento di discutere della Brexit e di svolgere le proprie prerogative nel delineare il futuro del paese”.

L’escalation dello scontro politico a Londra conferma dunque ancora una volta come la Brexit abbia innescato una crisi senza precedenti ai vertici dello stato britannico, favorendo metodi anti-democratici e paralizzando una classe dirigente incapace di districarsi da una situazione nella quale interessi contrapposti si scontrano frontalmente in un clima domestico e internazionale in fase di rapido deterioramento.

L’iniziativa di Downing Street minaccia di stravolgere anche i piani che gli oppositori di Johnson e dei fautori della linea dura sulla Brexit avevano concordato nel già ricordato vertice di martedì. In esso era stata messa da parte l’ipotesi di una possibile mozione di sfiducia contro il governo per puntare appunto su una misura che avrebbe messo il parlamento alla guida del processo della Brexit. La nuova realtà, che sembra escludere quest’ultima ipotesi, potrebbe però riportare clamorosamente all’ordine del giorno la sfiducia contro Boris Johnson e il voto anticipato.

Se nuove elezioni potrebbero rappresentare l’unica strada percorribile per evitare una Brexit senza paracadute, è del tutto plausibile che lo stesso governo conservatore veda con favore un’evoluzione di questo genere. Il partito al governo a Londra può contare ormai su una maggioranza di un solo seggio alla Camera del Comuni e un’elezione già nelle prossime settimane sarebbe una scommessa che varrebbe la pena di rischiare per rafforzare la posizione di Johnson, sfruttando il clima di caos prodotto dall’avvicinarsi della scadenza della Brexit.

Ad alimentare questi sospetti è tra l’altro l’anticipazione di una “spending review” da parte del Cancelliere dello Scacchiere, Sajid Javid, che assomiglia più a una fantasiosa promessa elettorale che a un piano studiato da un governo di estrema destra succeduto a svariati gabinetti conservatori protagonisti di devastanti politiche di austerity. Nella proposta di Javid sono contenuti infatti improbabili aumenti di spesa destinati, ad esempio, all’educazione e alla sanità pubblica.

Dell’opinione che Johnson intenda puntare su un voto di sfiducia, che lo vedrebbe sconfitto, per poi ottenere un’affermazione alle urne è anche il leader del partito della Brexit, Nigel Farage. Quest’ultimo ha evidentemente un certo interesse nel promuovere l’opzione elettorale, vista la possibilità di un’alleanza con i conservatori che consentirebbe al suo movimento di conquistare parecchi seggi in parlamento. Tuttavia, il suo commento ai fatti di mercoledì sembra delineare uno dei possibili sviluppi della crisi politica in Gran Bretagna. A detta di Farage, una mozione di sfiducia è “ora certa” e un voto anticipato “molto probabile”. Se, poi, il primo ministro condurrà una campagna elettorale proponendo una Brexit senza accordo con l’UE, il suo partito darà tutto il proprio contributo “per assicurare a Johnson una larga maggioranza” in parlamento.

I piani di Boris Johnson restano comunque ancora in dubbio. La decisione di sospendere il parlamento per alcune settimane sarà oggetto di dispute legali e, infatti, lo stesso procuratore generale Cox, nel suo parere consegnato settimana scorsa al governo, aveva indicato nei tribunali un possibile ostacolo alle intenzioni di Downing Street per giungere finalmente alla Brexit.

In un clima di emergenza, infine, anche se improbabile non è del tutto da escludere nemmeno che i contrari alla Brexit e i fautori di un’uscita morbida dall’Unione possano accelerare i tempi e approvare in parlamento già la settimana prossima una misura che limiti i margini di manovra del governo e imponga un accordo con Bruxelles. Qualche voce tra i deputati si è già alzata in questo senso, come quella dell’ex conservatore e ora “indipendente”, Nick Boles.

Interessante, infine, sarà la reazione dei laburisti e del loro leader, Jeremy Corbyn, finora quasi sempre in balia della destra del suo partito sulle questioni della Brexit. Martedì, Corbyn, si era visto bocciare la proposta di guidare un governo di transizione per portare il Regno Unito fuori dall’UE senza scosse, mentre dopo l’annuncio di Johnson ha chiesto un incontro “urgente” con la regina Elisabetta e promesso per settimana prossima un’iniziativa legislativa per fermare il primo ministro, assieme, “prima o poi”, a una mozione di sfiducia.

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