Un’oscura vicenda di spie sull’asse Washington-Mosca è stata riproposta in questi giorni dalla stampa americana probabilmente con lo scopo di screditare ancora una volta il presidente Trump e ridare una qualche attendibilità alla caccia alle streghe del “Russiagate”. CNN e New York Times, nella serata di lunedì, hanno raccontato dell’esistenza di un informatore della CIA, inserito ad altissimo livello al Cremlino, e di come fosse stato fatto uscire dalla Russia nel 2017 perché a rischio di essere “bruciato”, tra l’altro, dall’imprudenza di Trump e dalla sua attitudine troppo tenera nei confronti di Vladimir Putin.

Tutt’altro che casualmente, le due testate americane che hanno dato notizia della presunta super-spia americana al Cremlino sono state tra le più attive in questi anni nel promuovere le macchinazioni del “Russiagate”. Le rivelazioni o presunte tali, inoltre, sono come sempre non il frutto del lavoro investigativo dei giornalisti di CNN e Times, bensì di imbeccate dell’intelligence a stelle e strisce, di cui il network e il principale giornale “liberal” americano svolgono spesso e volentieri la funzione non ufficiale di portavoce.

La CIA, dunque, avrebbe reclutato il funzionario russo in questione “decine di anni fa”, quando ricopriva un incarico di “medio livello” nell’apparato di governo del suo paese. Il suo avanzamento di carriera sarebbe stato poi folgorante, fino a consentirgli di ottenere una prestigiosa e influente posizione “ai massimi livelli del Cremlino”. L’informatore russo non faceva parte però della ristretta cerchia di consiglieri e collaboratori di Putin, ma aveva comunque accesso ai processi decisionali del governo di Mosca.

Questa straordinaria fonte di informazioni ultra-riservate provenienti dal Cremlino si era ritrovata improvvisamente in pericolo dopo l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti e l’esplosione della campagna mediatica relativa alle “interferenze” russe nelle elezioni americane che, nel novembre del 2016, avrebbero appunto favorito la vittoria del magnate newyorchese sull’ex segretario di Stato, Hillary Clinton.

La posizione ormai precaria della “talpa” al Cremlino aveva spinto così i vertici della CIA a procedere con la sua “estrazione” dalla Russia, in modo da garantirgli il trasferimento in tutta sicurezza in territorio americano. Il funzionario aveva però declinato l’invito a lasciare il suo paese, suscitando per qualche tempo il sospetto di essere una doppia spia, per poi invece accettare qualche mese più tardi, quando le circostanze erano forse diventate estremamente pericolose a Mosca.

Questa è in sintesi la versione della storia proposta da CNN e New York Times. Pur non essendoci modo di verificare le informazioni degli articoli pubblicati lunedì, visto che l’intera ricostruzione si basa su rivelazioni di membri dell’intelligence USA, i motivi per dubitare della notizia sono molteplici.

In particolare, i reporter del Times sostengono che le informazioni di gran lunga più preziose fornite alla CIA dall’informatore del Cremlino, anzi le uniche informazioni passate agli americani di cui si parla nell’articolo, hanno a che fare guarda caso col “Russiagate”. L’informatore sarebbe stato cioè determinante nel dimostrare come Putin abbia “ordinato e orchestrato” la campagna di interferenze nei processi elettorali USA per favorire l’elezione di Trump. Una delle modalità con cui questo disegno sarebbe stato delineato a Mosca è l’hackeraggio del server del Comitato Nazionale del Partito Democratico che avrebbe rivelato e-mail imbarazzanti sul tentativo dei vertici di questo partito di boicottare la candidatura di Bernie Sanders, principale sfidante di Hillary Clinton nelle primarie.

Queste accuse, date per certe dal New York Times, sono state ampiamente screditate e, malgrado la presunta esistenza di prove irrefutabili provenienti direttamente dal Cremlino, di esse non è mai emersa traccia in tre anni di indagini giornalistiche e procedimenti giudiziari.

Le rivelazioni di questa settimana, forse proprio perché con poco o nessun fondamento, contengono svariati riferimenti alla loro sensibilità e importanza. Sempre secondo il Times, ad esempio, il materiale passato a Washington dalla spia americana a Mosca era così delicato che nel 2016 l’allora direttore della CIA, John Brennan, aveva deciso di non discuterlo durante i briefing giornalieri con Obama e i suoi consiglieri, ma lo inviava separatamente al presidente in buste accuratamente sigillate.

Il punto più controverso degli articoli citati riguarda però la possibile causa alla base della decisione di “estrarre” la spia del Cremlino dalla Russia. La CNN sostiene che ciò fu dovuto “in parte” alla predisposizione di Trump e della sua amministrazione a utilizzare in maniera inopportuna le informazioni di intelligence. In altre parole, la CIA temeva che il presidente potesse rivelare al governo russo l’esistenza di una “talpa” con accesso a Putin.

Anche questa tesi è stata abusata negli ultimi anni e, per riproporla al pubblico americano, il Times e la CNN riprendono un altro episodio spesso al centro delle accuse dei sostenitori del “Russiagate”, vale a dire un incontro alla Casa Bianca del maggio 2017, quando Trump ospitò Sergey Lavrov e Sergey Kislyak, rispettivamente ministro degli Esteri russo e ambasciatore di Mosca a Washington. Dopo questo evento furono accesissime le polemiche contro Trump, accusato da più parti di avere fornito alla delegazione russa informazioni riservate.

In definitiva, la rivelazione sulla spia piazzata ad altissimo livello al Cremlino sembra servire soprattutto a ravvivare la campagna contro Trump per i suoi legami inopportuni con Mosca. La strategia non è peraltro nuova. Come hanno fatto notare alcuni commentatori indipendenti, la pubblicazione su giornali come New York Times o Washington Post di notizie relative a spie americane in Russia ricorre in più occasioni, dall’estate del 2017 a oggi, e, in tutti i casi, si rendeva conto delle preoccupazioni ai vertici dell’intelligence USA per la possibile scoperta dei propri informatori proprio mentre il loro lavoro veniva rivelato dalla stampa “mainstream”. Il tutto, ancora una volta, per screditare la Casa Bianca e creare un clima di ostilità nei rapporti tra Washington e Mosca.

Che poi gli Stati Uniti dispongano di spie o informatori all’interno dell’apparato dello stato in Russia, e viceversa, è pressoché certo. Il prestigio delle posizioni che essi ricoprono e la qualità delle informazioni che sono in grado di ottenere restano però tutte da verificare. A giudicare dalla reazione di Mosca alle notizie circolate nei giorni scorsi, l’importanza attribuita alla “talpa” americana al Cremlino potrebbe essere decisamente esagerata.

Martedì, il governo russo ha infatti identificato nella spia al centro del racconto di Times e CNN l’ex funzionario governativo Oleg Smolenkov. Per il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, quest’ultimo lavorava per l’amministrazione Putin ma è stato licenziato parecchi anni fa e in nessun modo aveva accesso al presidente.

Il nome di Smolenkov è stato fatto dal governo di Mosca dopo che era apparso in rete a seguito alle rivelazioni di New York Times e CNN, anche se i media americani non ne avevano riportato il nome. I sospetti su Smolenkov erano stati fortissimi già nel 2017. Nel mese di luglio di quell’anno, infatti, era scomparso nel nulla da una località del Montenegro dove si era recato in vacanza con la famiglia. Le autorità russe avevano sostenuto di avere indagato la vicenda come un possibile omicidio, ma era stato da subito chiaro che si era in presenza di una probabile storia di spionaggio.

Per il giornale russo Kommersant, i servizi segreti di Mosca avevano ben presto abbandonato le indagini dopo avere scoperto che Smolenkov e la sua famiglia erano vivi e, utilizzando il loro nome, risiedevano all’estero in una località dello stato americano della Virginia, non distante dal quartier generale della CIA.

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