Con un verdetto che rappresenta una nuova devastante sconfitta per il primo ministro Boris Johnson, martedì la Corte Suprema del Regno Unito ha giudicato “illegale” la sospensione di cinque settimane del Parlamento di Londra che lo stesso capo del governo aveva imposto per cercare di mandare in porto la Brexit con o senza un accordo con l’Unione Europea. La sentenza potrebbe rafforzare il ruolo del potere legislativo nel decidere le modalità dell’uscita del paese dall’UE ma, soprattutto, aggrava ulteriormente la crisi politica in atto, lasciando a Johnson l’opzione di farsi da parte o di ricorrere a manovre ancora più anti-democratiche di quella appena bocciata in maniera clamorosa dal più alto tribunale d’appello britannico.

 

La questione dello stop forzato ai lavori parlamentari era arrivata alla Corte Suprema dopo tre pareri di altrettanti tribunali inferiori che si erano espressi in maniera diversa. Giudici di Londra e di Belfast avevano approvato l’iniziativa del governo, considerandola essenzialmente politica e quindi non soggetta alla valutazione della giustizia. Una corte in Scozia, dove il referendum del 2016 sulla Brexit aveva registrato un’ampia maggioranza a favore della permanenza nell’Unione Europea, aveva invece bocciato la richiesta di Johnson alla regina Elisabetta di sospendere il Parlamento fino alla metà di ottobre.

La Corte Suprema doveva esaminare due aspetti. Il primo riguardava la competenza della giustizia britannica a prendere in considerazione la decisione del primo ministro e, in tal caso, se quest’ultima era da considerarsi legale. Gli 11 giudici del tribunale hanno alla fine emesso un verdetto all’unanimità, con la presidente Lady Hale che ha bollato come “illegale, nulla e senza effetto” la richiesta fatta da Johnson alla regina di utilizzare i propri poteri per sospendere il Parlamento.

Come a sottolineare la durezza della sentenza, lo stesso giudice Hale ha spiegato che, “quando i commissari reali hanno fatto il loro ingresso nella Camera dei Lord [per sospendere il Parlamento] è come se lo avessero fatto con in mano fogli di carta bianca”, vista l’irregolarità del provvedimento. Per questa ragione, il Parlamento è come “se non fosse stato sospeso” e gli “speaker” delle due camere “possono prendere immediati provvedimenti” per consentire ai rispettivi membri di “riunirsi appena possibile”.

Le pesanti responsabilità di Boris Johnson sono apparse chiare dalle motivazioni della sentenza. La Corte ha concluso che, “senza nessuna giustificazione ragionevole”, la mossa del primo ministro “ha avuto l’effetto di ostacolare o impedire la facoltà del Parlamento di esercitare le proprie funzioni costituzionali”, tanto più con l’avvicinarsi di un appuntamento cruciale per il Regno Unito, come appunto l’uscita dall’UE, teoricamente fissata al 31 ottobre prossimo.

A seguito della sentenza, lo “speaker” della Camera dei Comuni, il conservatore John Bercow, ha subito riconvocato l’assemblea per la mattinata di mercoledì. Le reazioni politiche sono state prevedibilmente immediate. I partiti di opposizione hanno attaccato spesso in maniera molto dura il primo ministro e non pochi, soprattutto tra i contrari alla Brexit, ne hanno chiesto le dimissioni.

In previsione della sospensione del Parlamento fino a ridosso dell’uscita dall’UE, una maggioranza trasversale contraria a una Brexit senza accordo con Bruxelles aveva già approvato in tutta fretta un provvedimento che intendeva limitare gli spazi di manovra del governo. A Johnson, cioè, era stato imposto di chiedere un rinvio all’Europa se entro il 31 ottobre non ci fosse stato un accordo approvato dal Parlamento per un’uscita “morbida” dall’Unione.

Il primo ministro aveva lasciato intendere che avrebbe cercato di aggirare l’ostacolo, rispettando in modo formale la nuova legge ma forzando ugualmente la Brexit nei tempi previsti. La sentenza di martedì della Corte Suprema mette però probabilmente a repentaglio i piani di Johnson, visto anche che il Parlamento riconvocato potrebbe adottare nuovi provvedimenti per togliere all’esecutivo l’iniziativa sulla Brexit.

Johnson, a sua volta, nei giorni scorsi sembrava non volere escludere una possibile nuova sospensione del Parlamento, con l’obiettivo forse di provocare un voto di sfiducia nei suoi confronti e arrivare a un’elezione anticipata. Lo stesso primo ministro aveva chiesto in Parlamento lo scioglimento delle camere, in modo da ottenere un mandato pieno per gestire la Brexit secondo i propri piani, ma la richiesta era stata respinta perché avrebbe comportato quasi certamente un’uscita dall’UE senza un accordo con Bruxelles.

La nuova realtà venutasi a creare a Londra ha provocato un notevole imbarazzo per Johnson, impegnato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York. Il primo ministro intendeva utilizzare la sua trasferta negli USA come un’occasione per promuovere i piani dei fautori della Brexit relativi al futuro del Regno Unito. Sfruttando anche la sintonia con il presidente americano Trump, Johnson puntava a presentare uno scenario caratterizzato da tasse ridotte all’osso, liberalizzazioni selvagge e compressione dei diritti del lavoro, in modo da rendere il suo paese ancora più attraente per gli investitori internazionali.

Già nelle prossime ore saranno comunque più chiare le posizioni e le nuove strategie delle varie fazioni della classe dirigente britannica di fronte a un nuovo intensificarsi della crisi politica scatenata dalla Brexit. L’obiettivo di Johnson potrebbe essere di cercare in tutti i modi un voto anticipato, nella speranza di sfruttare il calo nei sondaggi dei laburisti, profondamente divisi sulla Brexit, e il presunto tradimento in atto del risultato del referendum del 2016.

Mentre la Corte Suprema ha giudicato non politica la decisione di Johnson di sospendere il Parlamento, l’intervento dei giudici nella vicenda ha invece inevitabilmente una valenza politica. In primo luogo, al di là della natura anti-democratica della mossa del primo ministro, la sentenza finirà per influire sull’evolversi della Brexit nelle sedi della politica di Londra.

È innegabile infine che sulla delibera del tribunale supremo abbiano avuto un peso gli interessi economici degli ambienti contrari alla Brexit o a una Brexit senza paracadute, i quali, nonostante gli orientamenti opposti dell’attuale governo, sono di fatto la maggioranza, oltre che in Parlamento, anche all’interno della classe dirigente del Regno Unito.

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