La decisione era nell’aria da alcuni giorni. Il Partito Democratico americano era tornato infatti ad agitare l’ipotesi impeachment dopo le ultime rivelazioni su Donald  Trump. Alla fine, la “speaker” della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi, ha annunciato il lancio formale della procedura di incriminazione del presidente degli Stati Uniti davanti al Congresso di Washington.

Che Trump sia responsabile di avere accelerato l’implementazione di forme di governo autoritarie, spesso in diretta violazione della Costituzione, è innegabile. Che il processo innescato dalla leadership del partito di opposizione negli USA rappresenti uno sforzo genuino per ripristinare la democrazia e il diritto, tuttavia, è quanto meno discutibile.

La minaccia dell’impeachment pendeva su Trump ancora prima del suo insediamento alla Casa Bianca, tanto che a tutt’oggi ci sono sei commissioni della Camera dei Rappresentanti che continuano a indagare su casi relativi alla condotta del presidente. La vicenda che ha però convinto i leader democratici a rompere gli indugi riguarda il presunto tentativo di Trump di convincere il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, a favorire l’incriminazione dell’ex presidente americano, Joe Biden, nel paese dell’Europa orientale.

 

Quest’ultimo avrebbe fatto a sua volta pressioni sul regime di Kiev nel 2016 per il licenziamento del procuratore generale che era sul punto di indagare il figlio Hunter, seduto nel consiglio di amministrazione di una compagnia energetica ucraina coinvolta in un caso di corruzione. Biden è sospettato di avere minacciato la sospensione di aiuti economici pari a un miliardo di dollari destinati all’Ucraina se la sua richiesta non fosse stata soddisfatta. Ugualmente, in un uno dei risvolti cruciali del caso, Trump aveva congelato quasi 400 milioni di dollari in aiuti militari stanziati per l’Ucraina, secondo i suoi accusatori in attesa della riapertura delle indagini nei confronti di Joe e Hunter Biden. Per la Casa Bianca, invece, lo stop al trasferimento del denaro a Kiev era dovuto esclusivamente a ragioni burocratiche.

La storia era diventata di dominio pubblico dopo che un anonimo agente dell’intelligence USA si era premurato di segnalare il comportamento sospetto tenuto da Trump in una telefonata con Zelensky il 25 luglio scorso. La segnalazione era stata giudicata “credibile” e “urgente” dall’ispettore generale dell’intelligence americana, Michael Atkinson. Come previsto dalla legge, Atkinson aveva deciso di informare il Congresso, ma era stato bloccato dal direttore dell’Intelligence Nazionale ad interim, Joseph Maguire, con l’approvazione della Casa Bianca e del dipartimento di Giustizia.

Di fronte all’ennesima fuga di notizie, l’amministrazione repubblicana si è così ritrovata di nuovo al centro di accesissime polemiche. I democratici alla Camera hanno subito richiesto la testimonianza dell’agente segreto da cui era partita la segnalazione, assieme alla consegna della trascrizione integrale della telefonata tra Trump e Zelensky. Le resistenze della Casa Bianca hanno fatto poi precipitare la situazione e convinto Nancy Pelosi ad annunciare l’avvio dell’impeachment.

Chiaramente sotto pressione, mercoledì Trump ha deciso di pubblicare il testo della telefonata con il presidente ucraino. Pur ribadendo di non avere commesso atti illegali, dalla trascrizione emerge come Trump abbia insistito ripetutamente col suo interlocutore per convincerlo a collaborare con il suo legale, Rudolph Giuliani, e col ministro della Giustizia, William Barr, per riaprire il caso contro i Biden. Trump, inoltre, sembrava lasciare intendere di essere pronto a sostenere economicamente e militarmente il governo di Kiev in cambio dei favori chiesti sull’ex vice-presidente USA.

Come già ricordato, i motivi per un’incriminazione di Trump erao molteplici e l’ala “progressista” del Partito Democratico spingeva da tempo con la leadership per un’iniziativa in questo senso. A risultare decisivo è stato però questa volta l’appoggio di un certo numero di deputati “moderati”, in precedenza molto cauti nell’assecondare un provvedimento che poteva, e potrebbe ancora, trasformarsi in un assist elettorale per il presidente.

La scintilla che ha fatto scattare l’impeachment contro Trump potrebbe essere in parte ricondotta, oltre che al tentativo del presidente di utilizzare illegalmente il proprio ufficio per sollecitare l’aiuto di un leader straniero contro un rivale politico interno, alla necessità di proteggere in qualche modo Joe Biden e la sua candidatura alla Casa Bianca. Almeno due elementi, tuttavia, sollevano dubbi di tutt’altra natura.

Il primo è rappresentato dal fatto che, come praticamente ogni linea d’attacco dei democratici contro Trump negli ultimi tre anni, la decisione di procedere con l’impeachment scaturisce da un input dell’intelligence americana. L’altro, da collegare a quest’ultimo, è la mobilitazione a favore dell’incriminazione del presidente di una manciata di deputati democratici, quasi tutti entrati al Congresso dopo le elezioni del 2018, con carriere alle spalle nella CIA o nelle forze armate.

Questi due aspetti contribuiscono a confermare come la nuova battaglia politica condotta dai democratici americani contro Trump abbia ben poco di democratico, nonostante la retorica di Nancy Pelosi e di altri esponenti di spicco del suo partito. Anzi, essi non fanno che ribadire come il durissimo conflitto in corso fin dal novembre 2016 all’interno della classe politica di Washington veda schierate due fazioni altrettanto reazionarie.

Trump al vertice di un movimento relativamente ristretto caratterizzato sempre più da tendenze autoritarie e fascistoidi dietro una retorica populista, nonché collegato agli ambienti neo-liberisti più radicali del capitalismo americano. I democratici come punto di riferimento del tradizionale apparato militare e dell’intelligence, in larga misura responsabile delle guerre di aggressione degli Stati Uniti negli ultimi decenni e promotore di una politica estera aggressiva volta a conservare la supremazia di Washington su scala globale.

In questa prospettiva, è del tutto plausibile che il tempismo dell’impeachment sia tutt’altro che casuale. Le ultime settimane, sia pure con le consuete contraddizioni che segnano fin dall’inizio l’amministrazione Trump, hanno visto una serie di circostanze che possono in qualche modo avere fatto aumentare i sospetti e le inquietudini nei confronti del presidente da parte del “partito della guerra”, ovvero gli ambienti “neo-con” americani e i loro referenti alla CIA e al Pentagono.

Questi eventi potrebbero essere, tra gli altri, le dimissioni del direttore dell’Intelligence Nazionale, Dan Coats, il brusco licenziamento a inizio settembre del consigliere per la Sicurezza Nazionale, il super-falco John Bolton, le timide aperture all’Iran, nonostante la nuova escalation di minacce dopo il recente attacco contro le raffinerie saudite, l’ipotesi di riammettere la Russia nel G8 e il rischio di incrinare i rapporti con l’Ucraina.

Le probabilità che il procedimento di impeachment contro Trump vada a buon fine sono per il momento minime. Un ruolo decisivo per la rimozione del presidente dal suo incarico lo svolge infatti il Senato, dove i repubblicani detengono la maggioranza. Qualche senatore del partito di Trump si è già mostrato disponibile quanto meno a valutare le ragioni dei democratici ma, in linea di massima, non sembra esserci per ora molto appetito a rompere con il presidente.

Oltretutto, gli stessi sondaggi che evidenziano l’impopolarità di Trump indicano anche come la maggioranza degli americani sia contraria all’impeachment. Anche per questo, il presidente e i repubblicani metteranno l’iniziativa del Partito Democratico al centro della campagna elettorale e già nelle ultime ore hanno lanciato con successo una nuova raccolta fondi, sfruttando l’indignazione provocata negli ambienti di estrema destra dalla decisione di procedere con l’impeachment.

Visti i poteri che stano dietro l’offensiva contro la Casa Bianca non è ad ogni modo da escludere che nel prossimo futuro possano emergere altri elementi “incriminanti” nei confronti di Trump e che gli esponenti repubblicani più tiepidi verso il presidente finiscano per abbracciare la causa dei democratici. Quanto meno, questi ultimi cercheranno di usare l’impeachment per boicottare l’agenda politica di Trump da qui al novembre 2020 e paralizzare l’attività legislativa durante la campagna elettorale.

I dettagli del processo che dovrebbe aprirsi contro Trump non sono comunque ancora chiari. Le indicazioni della Costituzione americana sull’impeachment lasciano una certa libertà di azione soprattutto alla Camera dei Rappresentanti. Questo ramo del Congresso deve in sostanza condurre un’indagine sulla condotta del presidente e raccomandare gli “articoli” secondo i quali l’impeachment deve procedere.

Il voto di una maggioranza semplice in aula riferisce poi la questione al Senato. Qui si dovrebbe tenere una sorta di processo al presidente, il quale può essere rimosso dal suo incarico da un voto dei due terzi dei senatori presenti. Nel caso al momento improbabile che Trump venga deposto, l’incarico di presidente passerebbe al suo vice, l’ultra-reazionario e fondamentalista cristiano Mike Pence.

Se l’annuncio di Nancy Pelosi dovesse dunque avere seguito, Trump diventerebbe solo il quarto presidente americano a subire un procedimento di impeachment. Prima di lui, Andrew Johnson e Bill Clinton vennero prosciolti dal Senato rispettivamente nel 1868 e nel 1999, mentre Richard Nixon, travolto dallo scandalo Watergate, si dimise nel 1974 prima del voto alla Camera dei Rappresentanti.

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