Il processo diplomatico in atto tra Stati Uniti e Corea del Nord continua ad avanzare a grandi passi verso il definitivo fallimento e il probabile imminente ritorno alla situazione di estrema tensione che regnava prima dell’improbabile disgelo tra Donald Trump e Kim Jong-un. La situazione si è aggravata nel fine settimana dopo un test dai contorni non ancora del tutto chiari condotto dal regime di Pyongyang, accompagnato da un avvertimento del presidente americano che è apparso tra i più minacciosi degli ultimi due anni.

Già da qualche mese vengono in realtà registrate quelle che la stampa internazionale definisce per lo più come “provocazioni” da parte della Corea del Nord. Esse servirebbero a fare pressioni sulla Casa Bianca per ottenere qualche concessione nel quadro dei negoziati, in primo luogo l’allentamento delle sanzioni tuttora imposte al paese dell’Asia nord-orientale in cambio dei passi non del tutto trascurabili fatti dallo stesso Kim.

 

Domenica, l’agenzia di stampa ufficiale nordcoreana KCNA ha riportato un comunicato governativo per confermare l’esecuzione con esito positivo il giorno precedente di un test presso il sito di Sohae, solitamente usato per il lancio di satelliti in orbita. I governi americano, giapponese e sudcoreano, così come svariati organi indipendenti, non hanno tuttavia rilevato attività di questo genere. Osservatori ed esperti hanno così ipotizzato l’effettuazione di un test “a terra” su un nuovo tipo di motore per i missili intercontinentali, verosimilmente a combustibile solido, più facile da trasportare e più difficile da localizzare rispetto a quello liquido. Quest’ultima ipotesi sarebbe confermata anche dal riferimento da parte nordcoreana a “un importante effetto sulla posizione strategica” del paese “nel prossimo futuro”.

La risposta di Trump nella mattinata di domenica ha fatto intravedere il possibile ritorno ai toni minacciosi del 2017. Il presidente americano si è affidato come di consueto a Twitter, scrivendo che “Kim Jong-un è troppo intelligente e ha troppo da perdere – tutto in realtà – per agire in maniera ostile”. Per Trump, inoltre, il leader nordcoreano non avrebbe intenzione di “mandare a monte la relazione speciale con il presidente degli Stati Uniti” e, riferendosi alle implicazioni di un’eventuale naufragio del negoziato diplomatico sul fronte interno, “per interferire nelle elezioni del novembre 2020”.

Solo il giorno precedente, Trump aveva ancora cercato di gettare acqua sul fuoco della crisi coreana. Il rapporto “speciale” instaurato con Kim, a suo dire, avrebbe cioè consentito ai due paesi di superare le difficoltà. Questa rassicurazione era però seguita a una presa di posizione sintomatica delle inquietudini nordcoreane. L’ambasciatore di Pyongyang alle Nazioni Unite, Kim Song, aveva respinto gli inviti dell’amministrazione Trump a riprendere il dialogo, definiti come “un inganno per guadagnare tempo” con l’occhio “all’agenda politica interna”. Soprattutto, il diplomatico nordcoreano aveva spiegato che la questione della “denuclearizzazione” del suo paese è ormai “esclusa dal tavolo dei negoziati”.

Questa affermazione rischia di mettere ancora di più in crisi la strategia negoziale americana, già di per sé caratterizzata da contraddizioni e incertezze. A ben vedere, la presa di posizione nordcoreana, assieme al test di domenica, è la conseguenza inevitabile della rigidità di Washington, da dove non si è finora mai considerata seriamente la possibilità di trattare in maniera onesta e di rispondere con iniziative reciproche a quelle messe in atto dalla Nordcorea.

Ancora nelle discussioni andate in scena a ottobre a Stoccolma tra le delegazioni di USA e Corea del Nord, gli americani avevano insistito nel chiedere una “denuclearizzazione completa, verificabile e irreversibile” sostanzialmente come condizione preliminare alla sospensione delle sanzioni e all’avvio di una trattativa vera e propria per raggiungere un accordo bilaterale.

Questo nodo continua a rappresentare l’ostacolo principale allo sblocco della situazione. Gli Stati Uniti, in definitiva, intendono imporre da subito alla Corea del Nord quello che dovrebbe essere il risultato finale dei negoziati, vale a dire, appunto, la denuclearizzazione del paese. Per il regime è evidentemente impossibile anche solo valutare questa ipotesi, essendo l’arsenale nucleare accumulato l’unico deterrente contro un’aggressione americana, come hanno dimostrato gli esempi dell’Iraq di Saddam Hussein e la Libia di Gheddafi.

Pyongyang si lamenta d’altra parte da tempo delle mancate concessioni americane alle iniziative prese per favorire il dialogo. Una di esse era significativamente proprio lo smantellamento del sito di Sohae, dove è avvenuto il test del fine settimana, annunciato durante lo storico vertice tra Trump e Kim a Singapore nel giugno 2018. La rimessa in funzione dell’impianto è un messaggio inequivocabile per la Casa Bianca. Kim, cioè, non esiterà a tornare sui propri passi se non arriveranno misure concrete da Washington entro la data del 31 dicembre prossimo, fissata dallo stesso leader nordcoreano come termine ultimo per mantenere in vita il moribondo processo diplomatico.

Se il tavolo dovesse effettivamente saltare, sono in molti a prevedere nel 2020 un’escalation del confronto. Lo sviluppo più logico prevede nuovi test missilistici a lungo raggio o addirittura nucleari, sospesi per ordine di Kim sul finire del 2017. Visto l’ultimatum in essere, infatti, il regime dovrà inevitabilmente dar seguito alle minacce. In parallelo, agli Stati Uniti non resterà che rispondere in maniera più o meno dura, inizialmente quasi certamente con nuove sanzioni punitive. A questo punto, la sorte del negoziato sarebbe di fatto segnata e il precipitare della situazione avrebbe implicazioni ancora più allarmanti, dal momento che l’opzione diplomatica è già stata percorsa senza successo.

Indicazioni cruciali sulle intenzioni di Kim dovrebbero arrivare dalla riunione del Comitato Centrale del Partito Comunista nordcoreano, convocato entro la fine dell’anno. Un possibile annuncio di qualche iniziativa clamorosa è tutt’altro che da escludere, visto anche che nelle ultime settimane sono stati molteplici i segnali che un’iniziativa di rilievo sia in fase di preparazione.

Le prossime mosse di Kim dovranno comunque tenere conto delle reazioni di Cina e Russia, i due paesi con cui la Corea del Nord intrattiene i maggiori rapporti economici e politici. Se entrambi potrebbero essere disposti ad accettare qualche iniziativa “provocatoria”, è improbabile che Pechino e Mosca possano approvare un test missilistico intercontinentale o nucleare.

Soprattutto da parte cinese, non esiste nessuna intenzione di avallare una nuova impennata delle tensioni in Asia nord-orientale, visto che un simile scenario consegnerebbe a Washington l’occasione di rafforzare la propria presenza nella regione e intensificare le pressioni su Pechino in un momento già segnato dall’inasprirsi della rivalità tra le prime due potenze economiche del pianeta.

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