Il Washington Post ha pubblicato lunedì una serie di documenti classificati che in molti negli Stati Uniti hanno definito come la versione afgana dei “Pentagon Papers”, apparsi sullo stesso giornale nel 1971 e che documentavano le manovre del governo di Washington in relazione alla guerra in Vietnam. Con le dovute differenze, anche quelli appena rivelati all’opinione pubblica americana e internazionale contribuiscono in effetti a dimostrare come il più lungo conflitto della storia USA sia fondamentalmente un’impresa criminale basata su una montagna di menzogne.

Le circa duemila pagine di documenti in questione contengono interviste e testimonianze di esponenti militari e del governo statunitense, consultati dall’ufficio del cosiddetto Ispettore Speciale Generale per la Ricostruzione dell’Afghanistan (SIGAR). Quest’ultimo è un organo creato nel 2008 con l’incarico di analizzare tutti gli aspetti della guerra nel paese centro-asiatico e di offrire un quadro della situazione attraverso rapporti periodici.

 

Le carte ottenute dal Post dopo un lungo procedimento legale si riferiscono a un progetto denominato “Lezione compresa” che, tra il 2014 e il 2018, intendeva valutare tutti gli aspetti fallimentari dell’occupazione afgana, in modo da evitare la ripetizione degli stessi “errori” per il futuro, verosimilmente in occasione delle prossime guerre di aggressione degli Stati Uniti. Il materiale così raccolto era inizialmente di dominio pubblico, ma sarebbe diventato ben presto segreto su iniziativa di Obama.

Il quadro che esce dai documenti è estremamente cupo, con gli ufficiali militari e i diplomatici di stanza in Afghanistan pressoché concordi nel delineare un panorama scoraggiante dell’impresa bellica americana lanciata dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Mentre le informazioni raccolte indicavano un costante peggioramento della situazione, i vertici militari e politici americani si adoperavano puntualmente per consegnare al pubblico un’immagine rosea degli scenari di guerra, assicurando che i progressi sul campo erano indiscutibili.

In una delle interviste pubblicate dal Post, il generale in pensione dell’Esercito, Douglas Lute, impegnato nella programmazione della guerra in Afghanistan durante la presidenza di Bush Jr. e Obama, riassumeva efficacemente il senso di sconforto che pervadeva le stanze del potere al di là della retorica ufficiale. Nel 2015, Lute affermava cioè che gli USA erano “privi della comprensione basilare dell’Afghanistan” e, fondamentalmente, “non avevamo la più vaga idea di cioè che stavamo facendo”.

In un’altra intervista, un funzionario, identificato solo come un membro del Consiglio per la Sicurezza Nazionale durante la presidenza Obama, spiegava come la Casa Bianca e il Pentagono insistessero affinché fossero prodotti dati sulla guerra che mostravano il successo della strategia di guerra messa in atto in Afghanistan nel 2009 in seguito all’aumento del numero delle truppe di occupazione. Per il testimone sentito dall’ufficio del SIGAR era però “impossibile avere dei parametri positivi”. Il Consiglio per la Sicurezza Nazionale aveva cercato di accontentare il presidente utilizzando i dati relativi “al numero dei soldati [afgani] addestrati, ai livelli di violenza, al controllo del territorio”, ma “nessuno di questi dava un’immagine accurata della situazione”. Alla fine, “i dati sono stati manipolati per tutta la durata della guerra”.

Anche il colossale sforzo economico degli Stati Uniti per la guerra e la “ricostruzione” dell’Afghanistan è stato irrimediabilmente segnato dal fallimento. Dal 2001, Washington ha speso la cifra incredibile di oltre mille miliardi di dollari nel paese occupato. Direttamente ai programmi per la ricostruzione sono andati 133 miliardi, di cui circa 83 destinati all’addestramento delle forze armate e di quelle di polizia indigene.

L’enorme flusso di denaro è finito in buona parte nelle tasche di politici e militari corrotti e a finanziare progetti sostanzialmente inutili. Un colonnello dell’esercito USA che ha collaborato con tre comandanti delle forze di occupazione, nel 2006 sosteneva come il governo-fantoccio di Kabul si era “auto-strutturato in una cleptocrazia”. A peggiorare le cose erano inoltre sempre la mancanza di comprensione delle attitudini locali e l’intenzione di imporre propri principi e interessi.

Ad esempio, la testimonianza di un funzionario americano coinvolto nei progetti di ricostruzione spiegava come gli afgani con cui collaborava tendevano a preferire un approccio “socialista o comunista”, visto che esso aveva dimostrato di funzionare prima del rovesciamento negli anni Ottanta del governo appoggiato dall’Unione Sovietica. I nuovi occupanti americani, invece, offrivano un fallimentare modello basato sulla “adesione dogmatica ai principi del libero mercato”.

La corruzione dilagante all’interno della classe dirigente afgana coltivata da Washington dopo l’invasione dell’ottobre 2001 è una delle eredità più tossiche lasciate dall’occupazione americana. L’attuale ambasciatore USA a Kabul, Ryan Crocker, plenipotenziario del presidente Bush nei primi anni dell’occupazione, ammetteva a questo proposito che “il nostro principale progetto può essere rappresentato, tristemente e di certo involontariamente, dallo sviluppo della corruzione di massa”. Facendo poi riferimento alla sua esperienza sul campo, Crocker aggiungeva come la corruzione in Afghanistan, “una volta arrivata al livello che ho potuto osservare, è incredibilmente difficile se non del tutto impossibile da debellare”.

Disastrosi sono anche i risultati delle due principali campagne sulle quali si fonda teoricamente l’opera di stabilizzazione USA dell’Afghanistan: la costituzione di forze armate indigene efficienti in grado di assumere il controllo del paese in maniera autonoma e la repressione della guerriglia degli “insorti” talebani. Questo secondo problema, in particolare, alimentava una valanga di menzogne per creare costantemente l’impressione di un conflitto nel quale gli Stati Uniti facevano segnare “progressi” verso una sicura “vittoria” contro i Talebani.

Ai vertici delle forze armate e del governo, la richiesta di dati positivi sul conflitto generava un flusso di notizie false nell’illusione di ricevere una qualche approvazione per le operazioni belliche da parte dell’opinione pubblica e degli stessi soldati e funzionari impegnati sul campo. Per questo, come spiegava un esperto di strategia anti-insorti dell’esercito, “le indagini erano del tutto inattendibili”, ma contribuivano a rafforzare la tesi che “tutto quello che stavamo facendo era giusto”.

Nel concreto, praticamente ogni evento o sviluppo negativo, per non dire disastroso, veniva ribaltato e utilizzato a questo scopo. Un altro membro del Consiglio per la Sicurezza Nazionale raccontava così all’Ispettore Speciale per la guerra in Afghanistan: “Ad esempio, se gli attacchi [degli insorti] si intensificavano era perché i Talebani stavano diventando disperati e il dato”, oggettivamente allarmante, “mostrava perciò che stavamo vincendo” la guerra.

I documenti pubblicati dal Washington Post testimoniano almeno in parte di un’impresa bellica segnata da distruzione, violenza, corruzione, spreco di vite umane e risorse economiche. La vera faccia dell’invasione e dell’occupazione dell’Afghanistan ha dovuto essere tenuta nascosta il più possibile in questi 18 anni, perché una rappresentazione fedele di essa avrebbe mostrato all’opinione pubblica americana e non solo la realtà di una guerra tutt’altro che “giusta” o “moralmente legittima”.

Ben lontane dall’essere motivate da un senso di giustizia nei confronti dei responsabili dell’11 settembre o dalla necessità di combattere il terrorismo islamista, le ragioni della guerra in Afghanistan hanno piuttosto avuto a che fare con gli obiettivi dell’imperialismo USA in Asia centrale e con la competizione, esplosa in questi ultimi anni, con potenze come Russia, Cina e Iran in un’area strategicamente cruciale del pianeta.

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