La messa in stato di impeachment del presidente americano Trump nella tarda serata di mercoledì ha innescato un delicato procedimento che avrà quasi certamente conseguenze di rilievo sia sulle elezioni del novembre 2020 sia sull’evoluzione complessiva di un quadro politico in profondissima crisi. Qualunque sia l’esito del processo, le prospettive appaiono tetre. Un’improbabile rimozione di Trump rafforzerebbe infatti la fazione guerrafondaia e ferocemente anti-russa della classe dirigente USA, rappresentata in primo luogo dal Partito Democratico. Una vittoria del presidente finirebbe invece per accelerare le tendenze autoritarie e fascistoidi della Casa Bianca.

 

Svariati politici democratici intervenuti nel dibattito di mercoledì alla Camera dei Rappresentanti hanno citato più o meno esplicitamente i precedenti di impeachment della storia americana, cercando di inserire il procedimento in corso in una tradizione democratica consolidata. Almeno l’incriminazione di Andrew Johnson nel 1868 e di Richard Nixon nel 1974, evitata solo dalle dimissioni dell’allora presidente, erano però sostenute da motivazioni genuinamente democratiche del tutto assenti dal panorama odierno.

Anche se la rimozione di Trump rappresenterebbe un obiettivo più che legittimo, la strada scelta dalla leadership del Partito Democratico americano non fa che trasformare uno strumento costituzionale per la difesa della democrazia in una battaglia combattuta all’interno degli ambienti di potere degli Stati Uniti. I promotori dell’impeachment contro Trump hanno in sostanza sostituito i principi democratici e l’interesse della popolazione, che dovrebbero teoricamente ispirare la procedura di incriminazione di un presidente, con le ragioni della “sicurezza nazionale” e la salvaguardia degli obiettivi strategici dell’establishment americano.

L’intero caso, dalla telefonata del 25 luglio scorso tra Trump e il presidente ucraino Zelensky agli “articoli di impeachment” votati mercoledì in aula relativi ad abuso di potere e ostruzionismo nei confronti del Congresso, risponde in definitiva a una sola necessità, quella di riportare al centro della politica estera degli Stati Uniti l’escalation del confronto con la Russia di Putin.

Nonostante la vicenda riguardi apparentemente l’Ucraina, gli stessi leader democratici hanno ammesso nelle loro dichiarazioni in aula mercoledì l’ossessione per il Cremlino. Adam Schiff, presidente della commissione Intelligence della Camera e figura centrale nella procedura di impeachment, ha spiegato come l’offensiva sul fronte domestico contro Trump sia strettamente collegata alla salvaguardia dei rapporti con Kiev in funzione anti-russa. In termini più espliciti, ha aggiunto il deputato democratico, “l’Ucraina sta combattendo la nostra guerra contro la Russia”.

Da ciò deriva in primo luogo il carattere anti-democratico dell’impeachment, confermato anche da una serie di altri provvedimenti approvati in concomitanza con l’incriminazione di Trump da una maggioranza trasversale al Congresso. Mentre, cioè, i democratici davano il via libera all’impeachment, ampie maggioranze alla Camera e al Senato inviavano alla Casa Bianca per la ratifica presidenziale il bilancio militare più sostanzioso della storia, cancellando nel contempo ogni restrizione all’uso della forza nelle relazioni internazionali e al dirottamento di fondi dal Pentagono alla costruzione del muro di confine con il Messico.

Un partito, come quello Democratico, che asseconda e alimenta gli impulsi dell’imperialismo USA non può che essere strutturalmente incapace di condurre una battaglia autenticamente democratica contro un presidente come Trump. Questo comporta, da una parte, il mancato collegamento con l’opposizione nel paese alle politiche ultra-reazionarie della Casa Bianca e, dall’altra, la possibilità per Trump di proiettare un’immagine di vittima di una cospirazione orchestrata dal sistema di potere di Washington.

Effetti positivi per Trump potrebbero esserci così anche in previsione delle presidenziali del prossimo anno. Lo scollamento tra la campagna del Partito Democratico e la maggioranza degli americani è confermato da alcuni recenti sondaggi che indicano come la popolarità di Trump sia salita e quella dell’impeachment crollata dopo le ultime settimane durante le quali il procedimento di incriminazione ha assunto un profilo più chiaro.

Questa settimana, la Gallup ha evidenziato un indice di popolarità per Trump passato dal 39% al 45% rispetto alle prime fasi dell’impeachment. Tra gli intervistati, il 51% si dice poi contrario alla rimozione del presidente (+5%), mentre i favorevoli sono scesi al 46% (-6%). Se il Senato di Washington a maggioranza repubblica dovesse come previsto assolvere Trump, la campagna elettorale di quest’ultimo sarà inoltre incentrata sulla “persecuzione” subita in questi mesi per mano dei democratici.

Questa caratterizzazione degli eventi è per molti versi in linea con quanto realmente accaduto fino al voto della Camera di mercoledì. Il blog MoonOfAlabama ha riassunto le fasi dell’impeachment collegandole alle manovre coordinate tra la leadership del Partito Democratico e ambienti ostili a Trump nell’apparato della “sicurezza nazionale” (FBI e CIA).

Per quasi due anni la battaglia contro Trump, basata su divergenze sostanziali nella conduzione della politica estera, è passata attraverso l’indagine del “Russiagate”, avviata da un’iniziativa dell’FBI grazie a un input dell’intelligence e del clan Clinton sotto forma di un finto dossier sulle “collusioni” tra il presidente e il governo di Mosca. Nonostante metodi di indagine a dir poco discutibili e recentemente condannati da un rapporto interno del Dipartimento di Giustizia, il “Russiagate” si era concluso nel nulla.

L’offensiva contro Trump non si è però fermata e ha in seguito assunto le forme del cosiddetto “Ucrainagate”, oggetto dell’impeachment in corso. Il nuovo “scandalo” era partito da una segnalazione di un agente della CIA di stanza alla Casa Bianca che aveva rilevato il comportamento “illegale” del presidente nel corso della già ricordata conversazione telefonica con Zelensky sul finire del mese di luglio. Trump, com’è noto, avrebbe chiesto l’apertura di un’indagine sul figlio dell’ex vicepresidente Joe Biden, nominato ai vertici di una compagnia energetica ucraina, in cambio dello sblocco di quasi 400 milioni di dollari in aiuti militari già stanziati dal Congresso.

La leadership democratica era inizialmente scettica circa l’opportunità di procedere con l’impeachment, ma le riserve sono state sciolte con ogni probabilità dall’intervento del “deep state” americano. Almeno pubblicamente, il segnale dell’azione era stato un editoriale scritto per il Washington Post da sette deputati democratici, tutti con un passato nella CIA o nelle forze armate, i quali invocavano la messa in stato di accusa del presidente. Il giorno successivo, la “speaker” della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi, avrebbe annunciato ufficialmente il lancio della procedura di impeachment.

Per quanto riguarda le prossime tappe dell’impeachment, dopo il voto di mercoledì è attesa la decisione della leadership democratica per il passaggio ufficiale dei capi d’accusa contro Trump al Senato, dove si terrà qualcosa di molto simile a un processo. Per dichiarare colpevole il presidente e rimuoverlo dal suo incarico sarà necessaria una maggioranza di due terzi dei senatori.

I tempi sembravano dovere essere rapidi, con l’inizio del dibattito già ai primi di gennaio e un voto finale dopo pochi giorni o settimane. Giovedì i giornali americani hanno però dato notizia dell’intenzione di Nancy Pelosi di temporeggiare, in attesa di un accordo con i leader repubblicani di maggioranza al Senato per ottenere una serie di condizioni che soddisfino le richieste del Partito Democratico.

Teoricamente, in gioco dovrebbero esserci regole che garantiscano un procedimento “equo”, anche se qualche commentatore al di fuori dei circuiti mediatici ufficiali ipotizza l’esistenza di una trattativa per arrivare a una soluzione che eviti imbarazzi proprio ai democratici. Ciò dovrebbe in primo luogo escludere la deposizione di testimoni favorevoli al presidente e in grado, ad esempio, di fare luce sui traffici in Ucraina della famiglia Biden o sulle “interferenze” – in questo caso reali e dimostrate – del governo di Kiev nel 2016 per favorire l’elezione alla Casa Bianca di Hillary Clinton.

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