Se esistesse ancora qualche dubbio su quali poteri negli Stati Uniti appoggino nonostante tutto l’amministrazione Trump, uno sguardo all’ultimo rapporto sul carico fiscale delle corporation americane, realizzato dall’Institute on Taxation and Economic Policy (ITEP), consentirebbe di fugarli istantaneamente. Lo studio è particolarmente interessante non solo per la conferma della natura deliberatamente classista anche del sistema fiscale USA, ma perché è il primo che fotografa la nuova realtà creata dalla “riforma” del fisco firmata dal presidente repubblicano nel 2017.

L’elemento più rilevante dell’indagine è che la stessa aliquota ridotta del 21%, riservata alle grandi aziende, rappresenta molto spesso un inganno. La tassa era stata tagliata dal precedente 35% grazie alla legge voluta dalla Casa Bianca (“Tax Cuts and Jobs Act”), ma, come dimostra lo studio ITEP, nel 2018 l’aliquota media effettiva gravante su 379 delle 500 aziende americane più ricche, citate nel famoso elenco di Forbes, è stata solo dell’11,3%.

 

Ovviamente, questa aliquota è la più bassa in assoluto rilevata dagli studi dell’ITEP, iniziati nel 1984. Il dato non esaurisce però i vantaggi offerti dalla riforma di Trump alle corporation. Infatti, 195 compagnie hanno pagato poco meno della metà dell’aliquota nominale a cui sono teoricamente soggette. Altre 56 tra lo zero e il 5% e ben 91 non hanno sborsato un solo dollaro di tasse o hanno beneficiato addirittura di un’aliquota negativa, cioè hanno ricevuto rimborsi fiscali dal governo federale.

Il pagamento di imposte inferiori rispetto a quelle ufficialmente dovute dipende da scappatoie legali inserite in maniera intenzionale nella legislazione, come la possibilità di diluire negli anni un precedente credito fiscale. I due casi più frequenti segnalati dall’ITEP che consentono l’abbattimento della pressione fiscale per le corporation sono, da un lato, la svalutazione artificialmente “accelerata” degli investimenti, grazie a cui si gonfiano in apparenza i costi e si riducono i profitti, e dall’altro la pratica dei bonus erogati ai manager sotto forma di “stock options”.

Quest’ultimo caso dimostra alla perfezione come la legge sul fisco USA sia scritta appositamente per favorire le grandi aziende. Come spiega il blog dell’ITEP, le “stock options” sono “contratti”, con cui le corporation premiano i loro dirigenti, “che prevedono l’acquisto di azioni della stessa compagnia a un prezzo prestabilito entro un determinato periodo di tempo”. I dipendenti che detengono l’opzione aspettano il momento in cui il valore delle azioni sale per acquistarle al prezzo fissato e poi venderle a uno più alto.

Il costo rappresentato per le corporation dalle “stock options”, fiscalmente deducibile come tutti i bonus elargiti ai dipendenti, può essere aumentato sensibilmente nelle dichiarazioni dei redditi rispetto a quanto ammonta effettivamente a livello contabile. In questo modo, i costi delle compagnie salgono in maniera fittizia, con evidenti riflessi positivi sul piano fiscale.

Grazie a queste e ad altre manovre, decine di corporation americane con profitti enormi hanno ricevuto complessivamente dal fisco 6,29 miliardi di dollari di rimborsi. Scorrendo l’elenco di quelle che hanno ottenuto sostanziose sovvenzioni fiscali si incontrano svariati colossi operanti nei più diversi settori dell’economia. Amazon, una delle più grandi compagnie e di proprietà dell’uomo più ricco del pianeta (Jeff Bezos, patrimonio stimato superiore a 113 miliardi di dollari) nel 2018 ha avuto profitti per quasi 11 miliardi, sui quali non solo non ha pagato nulla in tasse federali, ma ha incassato dal Tesoro USA 29 milioni di dollari.

La compagnia di logistica FedEx, che con Amazon ha in comune i metodi di sfruttamento estremo dei propri dipendenti, ha registrato profitti pari a 2,3 miliardi e ricevuto un rimborso fiscale da 107 milioni, corrispondente a un’aliquota negativa del 4,6%. Gli esempi di un simile rapporto tra profitti e rimborsi fiscali sono molteplici, tra cui: Starbucks (4,8 miliardi / 75 milioni), Delta Airlines (5,1 miliardi / 187 milioni), General Motors (4,32 miliardi / 104 milioni), ma anche Wal-Mart, JPMorgan e Bank of America.

Se le 379 corporation prese in considerazione dallo studio ITEP avessero pagato in pieno le loro tasse secondo la già ridicola aliquota ufficiale del 21%, che i lavoratori dipendenti possono solo sognare, il governo federale avrebbe incassato poco meno di 74 miliardi di dollari, in buona parte sottratti invece alle casse pubbliche. Una cifra che, ad esempio, avrebbe permesso di finanziare in pieno un intero anno di tasse universitarie degli studenti iscritti ai “college” pubblici degli Stati Uniti.

Questi numeri dimostrano ancora una volta come la “riforma” fiscale di Trump sia stata un’ulteriore operazione condotta dalla classe dirigente americana con il preciso obiettivo di accelerare il trasferimento di risorse dal basso verso l’alto della piramide sociale. Ciò è avvenuto grazie al voto di un Congresso a maggioranza repubblicana, ma con i democratici che hanno svolto un’opposizione particolarmente blanda, nonostante la grande maggioranza degli americani chiedesse e continui a chiedere misure diametralmente opposte.

La legge sul fisco USA era stata promossa dalla Casa Bianca come una misura che avrebbe innescato una crescita economica irresistibile, generando investimenti a valanga, posti di lavoro e aumenti delle retribuzioni. Coloro che avevano creduto alla favola di Trump si trovano ora davanti a dati che disegnano una realtà ben diversa. I veri effetti della “riforma” li ha riassunti in questi giorni il direttore di un altro centro di ricerca, l’Economic Policy Institute di Washington, e consistono principalmente in “un drammatico incremento del riacquisto di azioni proprie da parte delle corporation e l’intensificarsi della tendenza all’aumento delle disuguaglianze di reddito in atto ormai da decenni”.

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