Malgrado il sostanziale equilibrio che ha caratterizzato i risultati delle primarie democratiche del New Hampshire, almeno un verdetto praticamente definitivo è arrivato dal piccolo stato del New England, cioè la fine delle speranze di nomination per colui che sembrava essere il favorito solo fino a poche settimane fa, l’ex presidente Joe Biden. Sulla strada verso l’uscita sembra essersi avviata anche la senatrice del Massachusetts, Elizabeth Warren, vista la chiara tendenza degli elettori di “sinistra” del partito a concentrare il proprio voto sul vincitore di martedì, il collega “democratico-socialista” del Vermont, Bernie Sanders.

 

L’aspetto forse più significativo dell’appuntamento di apertura delle primarie democratiche 2020, dopo i “caucuses” dell’Iowa di lunedì scorso, è però il persistere di una situazione fluida, con equilibri non ancora consolidati tra gli aspiranti alla Casa Bianca. Più precisamente, le due prestazioni positive di Sanders in poco più di una settimana non hanno per il momento rappresentato uno sfondamento, così che l’establishment del partito e gli ambienti a esso vicini potranno continuare a valutare quale sia il candidato “moderato” più adatto a intascare la nomination.

Dopo il voto del New Hampshire, sono salite le quotazioni dell’ex sindaco della cittadina di South Bend, nell’Indiana, Pete Buttigieg, e, a sorpresa, della senatrice del Minnesota, Amy Klobuchar. Il primo, proclamato vincitore nei discussi “caucuses” dell’Iowa, si è piazzato dietro Sanders per una manciata di voti ed è riuscito a ottenere lo stesso numero di delegati di quest’ultimo. La Klobuchar era data fino a poco tempo fa in affanno, ma, dopo una performance nel dibattito televisivo precedente le primarie celebrata dai media ufficiali, ha chiuso al terzo posto con un discreto 20% di consensi.

Come già anticipato, Biden e Warren hanno ripetuto il flop dell’Iowa e, con percentuali decisamente trascurabili, non hanno conquistato nemmeno uno dei delegati in palio proporzionalmente nello stato degli USA nord-orientali. La senatrice del Massachusetts ha cercato comunque di proiettare un certo ottimismo dopo la diffusione dei risultati, assicurando di avere un piano per recuperare sul lungo termine.

Biden, invece, ha faticato a proporre una giustificazione per restare in corsa. Ancora prima della chiusura dei seggi in New Hampshire, l’ex vice di Obama era volato in South Carolina, dove le primarie saranno il 29 febbraio e, assieme ai “caucuses” del Nevada il giorno 22, potrebbero chiudere definitivamente la sua corsa. Qualche improbabile speranza per Biden potrebbe essere legata alla quota significativa di elettori afro- e latino-americani presenti complessivamente nei due stati. La versione ufficiale è che l’ex vice-presidente conservi un qualche margine di vantaggio tra queste categorie, anche se le indagini più recenti indicano una rapida erosione a favore di altri candidati.

Bernie Sanders sta dunque consolidando la sua posizione di candidato dell’ala progressista e, di conseguenza, andrà incontro nelle prossime settimane ad attacchi sempre più duri da parte dell’establishment del partito e dei media “liberal”. Già nei giorni scorsi aveva raggiunto livelli al limite dell’isteria il dibattito sulla sostenibilità di un’agenda pseudo-socialista, come quella avanzata da Sanders, anche perché facilmente attaccabile da Trump in un’ipotetica sfida per le presidenziali di novembre.

In realtà, già la stessa insolita apertura di una discussione pubblica su un argomento simile negli USA è sintomo di un appeal in crescita del socialismo anche in questo paese, soprattutto tra i più giovani. I risultati ottenuti da Sanders in Iowa e New Hampshire confermano questa tendenza, nonostante la campagna di discredito già ben avviata contro il senatore del Vermont. Le sue chances di mettere le mani sulla nomination restano in ogni caso esigue. Sanders si ritroverà infatti di fronte a un’offensiva condotta da praticamente tutto il sistema politico e mediatico americano, con l’obiettivo, in sostanza, di far credere agli elettori democratici che un candidato “socialista” non potrà mai unificare il paese e conquistare la Casa Bianca.

Al di là della reale natura dell’agenda di Sanders, decisamente non riconducibile al socialismo ma tutt’al più ai modelli della socialdemocrazia europea di qualche decennio fa, è estremamente sintomatico che gli ambienti democratici americani abbiano alimentato nei giorni scorsi polemiche a tratti pesantissime contro Sanders, tralasciando quasi del tutto di condannare la proposta di bilancio per il prossimo anno del presidente Trump, contenente aumenti della spesa militare e tagli enormi a quella prevista per i programmi di assistenza pubblica.

Dopo i primi due appuntamenti con le urne della stagione elettorale 2020, sta rapidamente emergendo come candidato preferito dell’establishment il 38enne Buttigieg. Il suo curriculum disegna l’identikit di un politico espressione, da un lato, dell’apparato militare e della “sicurezza nazionale” e, dall’altro, delle élite economiche e finanziarie americane. L’ex sindaco di South Bend è stato infatti un ufficiale dei servizi segreti della Marina USA, ha probabilmente collaborato con la CIA in Afghanistan e ha lavorato per la famigerata compagnia di consulenza al management aziendale McKinsey, definita da una recente indagine del magazine The Atlantic come una dei principali responsabili della “distruzione della classe media americana”.

Il suo passato e l’abbraccio di politiche moderate o, per meglio dire, irriducibilmente “pro-business” rappresentano le migliori credenziali di Buttigieg agli occhi dei vertici del Partito Democratico e di giornali come New York Times o Washington Post. Gli ostacoli a un possibile decollo della sua posizione di principale candidato anti-Sanders restano tuttavia notevoli. Buttigieg resta poco conosciuto a livello nazionale e non ha di fatto nessuna esperienza politica di rilievo. In generale, la sua promozione ai massimi livelli della politica di Washington rimane un’operazione studiata a tavolino, per molti versi paragonabile a quella che lanciò Barack Obama nel 2008, che potrebbe faticare a penetrare tra l’elettorato democratico nel prosieguo delle primarie.

Se Buttigieg o la senatrice Klobuchar dovessero perdere spinta in Nevada e South Carolina, l’assenza di un candidato forte per la nomination a questo punto della competizione permetterebbe comunque di valutare un’altra opzione per i moderati del Partito Democratico, cioè quella dell’ex sindaco di New York Michael Bloomberg. Il miliardario a capo dell’omonimo colosso mediatico era entrato in gara solo a fine 2019 e ha deciso di saltare le prime quattro sfide delle primarie democratiche.

Bloomberg si presenterà agli elettori solo a partire dal “super-martedì”, fissato per il 3 marzo prossimo, quando un lungo elenco di stati assegnerà circa il 40% dei delegati totali del Partito Democratico. Il gradimento di Bloomberg è salito di qualche punto percentuale nelle ultime settimane, a seguito del crollo di Biden e, soprattutto, di una campagna aggressiva finanziata da qualcosa come 300 milioni di dollari della sua fortuna personale. L’obiettivo dell’ex sindaco di New York, nonché ex repubblicano ed ex “indipendente”, è sostanzialmente di comprare la nomination democratica o, quanto meno, di impedire che ad aggiudicarsela sia alla fine Bernie Sanders.

Se il senatore del Vermont resta probabilmente il candidato con la maggiore presa sull’elettorato democratico di riferimento, è altrettanto innegabile che l’entusiasmo attorno alla sua figura non è paragonabile a quello generato nel corso delle primarie del 2016. La sua rapida rinuncia alla lotta in quell’occasione e il sostegno offerto a Hillary Clinton, nonostante il complotto orchestrato ai suoi danni dal Partito Democratico, hanno senza dubbio raffreddato l’interesse di una parte degli americani.

Il suo successo in New Hampshire è stato così molto meno netto rispetto a quattro anni fa. La sua età – 79 anni a settembre – solleva poi parecchie perplessità, amplificate anche da uno stato di salute segnato da un attacco cardiaco che lo ha colpito solo pochi mesi fa. La già citata offensiva incrociata del suo stesso partito per affondarne la candidatura, inoltre, ha inevitabilmente un qualche effetto. Un fattore importante per spiegare il calo dell’interesse attorno a Sanders è infine collegato alla presa di coscienza di un numero sempre maggiore di americani dell’impossibilità di innescare un cambiamento in senso quanto meno progressista di un sistema oligarchico e ultra-classista per mezzo del Partito Democratico.

L’organizzazione su cui può contare Sanders resta comunque solida e capillare, sostenuta da contributi elettorali considerevoli. Questa realtà farà in modo che la sua candidatura e il seguito in grado di generare continueranno a costituire un elemento determinante anche in una competizione, come quella delle primarie democratiche, in larga misura artificiosa e soggetta a manipolazioni. Nel solo mese di gennaio, Sanders ha raccolto ben 25 milioni di dollari, mentre nei primi nove giorni di febbraio sono già state registrate 600 mila donazioni a suo favore, fatte in media da poche decine di dollari ciascuna.

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