Quella che si è aperta lunedì a Charlotte, in North Carolina, con la nomina ufficiale di Donald Trump a un secondo mandato alla guida degli Stati Uniti è una convention repubblicana quasi del tutto inedita. Le ragioni non dipendono solo dalla ridottissima presenza di partecipanti in loco per via dell’emergenza Coronavirus, ma anche e soprattutto dallo spazio che stanno trovando e troveranno fino a giovedì le posizioni ultra-reazionarie, se non apertamente fasciste, dei partecipanti, a cominciare dal presidente in carica.

 

Con Trump finora in affanno nei sondaggi, l’evento organizzato dal Partito Repubblicano ha tra i propri obiettivi quello di rappresentare una realtà parallela che celebri gli inesistenti successi in ambito economico, sociale e, addirittura, sanitario dell’inquilino della Casa Bianca. In quello economico, gli unici a beneficiare delle politiche trumpiane sono stati i super-ricchi e le grandi corporations, mentre per un bilancio della lotta al Covid-19 è sufficiente confrontare i dati della situazione americana con quelli del resto del pianeta.

Come hanno raccontato da Charlotte gli inviati del New York Times, a giudicare dai discorsi dei pochi delegati presenti alla convention e da quelli intervenuti da remoto è impossibile ricavare l’impressione di un paese che conta “quasi 180 mila morti per Coronavirus” o nel quale “Trump ha ripetutamente ignorato gli avvertimenti sulla malattia” e “alimentato deliberatamente istinti xenofobi e razzisti”, per non parlare di una situazione economica “che ha iniziato a precipitare a partire dalla scorsa primavera”.

La stessa assurda deformazione della realtà il Partito Repubblicano o, per meglio dire, la parte del partito che appoggia Trump continua a proporla anche riguardo al futuro che attenderebbe gli Stati Uniti in caso di vittoria di Joe Biden e dei democratici nelle elezioni di novembre. Il presidente e i suoi sostenitori prospettano scenari politici dominati dalla “sinistra radicale” che porterebbe il paese dritto verso il socialismo. Per il deputato repubblicano Matt Gaetz, intervenuto lunedì alla convention, all’indomani dell’insediamento di Biden alla Casa Bianca, i democratici sarebbero pronti a “disarmare e obbligare nelle loro case gli americani”, a “svuotare le prigioni” e presumibilmente a favorire il proliferare delle attività della gang centro-americana MS-13.

Che un veterano della politica di Washington come Joe Biden, ultra-compromesso con l’establishment e i grandi interessi economico-finanziari da oltre quattro decenni, possa guidare una rivoluzione socialista negli Stati Uniti è una tesi che non merita nemmeno di essere presa in considerazione. L’insistenza e quasi l’ossessione per la presunta minaccia socialista da parte di Trump e dei suoi tirapiedi rivelano però un’ansia concreta nei confronti delle forze e delle aspettative di una parte crescente della popolazione americana che riconosce il pericolo rappresentato dall’attuale amministrazione.

In questo quadro, la strategia elettorale di Trump e dei repubblicani consiste non tanto nell’allargare la base di consenso in vista del voto. Trump, d’altra parte, non ha raccolto l’approvazione della maggioranza degli americani nemmeno in un singolo sondaggio a partire dal gennaio del 2017 e, inoltre, negli Stati Uniti o in altri paesi non esiste ancora un sostegno di massa per l’ultradestra. Piuttosto, come ha già confermato il profilo della convention in corso, l’intenzione sembra essere quella di coltivare un movimento relativamente limitato di estrema destra che, puntando su una feroce retorica populista e anti-socialista, crei le condizioni per il consolidamento di un sistema di potere personalistico e dai chiari accenti fascistoidi.

Le implicazioni di questa deriva sono decisamente allarmanti. In primo luogo e in modo poco sorprendente, Trump intende fare appello alle forze armate e a quelle di polizia, attraverso una campagna “law and order” che si scontra frontalmente con i movimenti di protesta, in larga misura di orientamento progressista, che attraversano le città americane da qualche mese a questa parte. Non solo, il presidente repubblicano e il suo entourage insistono nel sollevare ipotesi di soluzioni extra-legali per conservare il potere, come il ripetuto riferimento alla possibilità per Trump di andare oltre i due mandati previsti dalla Costituzione USA.

La polemica più calda in questo senso è quella del voto per posta, a cui ricorreranno massicciamente molti stati a causa delle restrizioni e dei rischi dell’epidemia di Coronavirus. Senza alcun fondamento, Trump continua a denunciare irregolarità e potenziali frodi a favore dei democratici se il voto non vedrà la stragrande maggioranza degli elettori recarsi personalmente alle urne. In questo modo, il presidente punta a creare un clima di sospetto e di isteria che, in caso di incertezza all’indomani delle elezioni, gli consenta di contestare i risultati e di reclamare la permanenza nel suo incarico.

In generale, la sfilata alla convention repubblicana di razzisti, anti-semiti, anti-comunisti e semplici nullità politiche e intellettuali dimostra ancora una volta il degrado della classe dirigente che decide delle sorti del paese più potente del pianeta. L’aperta celebrazione a Charlotte di tendenze ultra-reazionarie non è comunque il riflesso di uno spostamento a destra della popolazione americana nel suo complesso, ma piuttosto della latitanza del Partito Democratico.

La fissazione dei leader di quest’ultimo sulle questioni di razza e di genere, il perseguimento a oltranza di politiche cospirazioniste anti-russe e l’asservimento al “deep state” e ai grandi interessi economici sono la cifra della strategia elettorale democratica. Una strategia che ricalca, al di là delle apparenze, quella fallimentare di Hillary Clinton del 2016. Proprio la persistente mancanza di collegamento tra le richieste provenienti dal basso e l’offerta politica del Partito Democratico consente a Trump di proporsi ancora una volta come una sorta di “outsider” e di intravedere un percorso verso la vittoria a novembre, nonostante i sondaggi siano per il momento favorevoli a Biden.

L’appello alla mobilitazione di decine di milioni di americani costretti a pagare le conseguenze dell’epidemia e della crisi economica sarebbe la carta vincente dei democratici ma il partito di Obama, Clinton e Biden è organicamente incapace di muoversi in questo senso, perché in sostanza non è che l’altra faccia di quello repubblicano. Oltre a non rappresentare una minaccia per l’oligarchia economico-finanziaria che si spartisce la gran parte delle ricchezze, esso ha il suo punto di riferimento nell’apparato di potere USA e si propone infatti di ristabilire la posizione dell’imperialismo americano sullo scacchiere internazionale, messa a repentaglio dall’imprevedibilità e dalle politiche ultra-nazionaliste di Trump.

La prova di questa realtà è, tra le altre, la pioggia di dollari di Wall Street su Joe Biden, ma anche la presa di posizione pubblica a favore dello stesso candidato democratico di centinaia di personalità politiche o riferibili all’apparato della “sicurezza nazionale”, vicine o facenti parte del Partito Repubblicano.

Proprio il giorno dell’apertura della convention che ha investito Trump, 27 ex membri repubblicani del Congresso di Washington hanno dichiarato il loro appoggio a Biden e alla sua candidata alla vice-presidenza, la senatrice della California Kamala Harris. La stessa iniziativa l’avevano presa già la settimana scorsa più di settanta esponenti di primo piano del Partito Repubblicano, tra cui ex direttori di CIA e FBI, tutti dichiaratisi estremamente preoccupati per le implicazioni e le conseguenze di un possibile secondo mandato di Trump alla presidenza degli Stati Uniti.

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