Anche se la campagna americana di “massima pressione” sull’Iran ha incontrato un previsto ostacolo nei giorni scorsi alle Nazioni Unite, gli sforzi dell’amministrazione Trump per cercare di mettere all’angolo la Repubblica Islamica non sembrano volersi fermare. Le manovre USA stanno infatti procedendo con il tour in Medio Oriente e in Africa settentrionale del segretario di Stato, Mike Pompeo, il cui obiettivo principale è appunto di raccogliere e allargare i consensi per le politiche anti-iraniane di Washington, in parallelo alla normalizzazione dei rapporti tra Israele e alcuni regimi arabi sunniti.

 

La battaglia all’ONU ha segnato il fallimento del tentativo americano di reintrodurre tutte le sanzioni internazionali che erano previste contro Teheran prima della stipula dell’accordo sul nucleare del 2015 (JCPOA). Il “meccanismo” invocato dagli Stati Uniti prevedeva il cosiddetto “snapback”, cioè appunto il ritorno a un regime punitivo in seguito al mancato rispetto da parte iraniana di alcune delle condizioni stabilite dall’intesa di Vienna.

Il Consiglio di Sicurezza, però, venerdì scorso aveva respinto l’istanza della Casa Bianca perché il governo americano intendeva invocare l’applicazione di un accordo da cui esso stesso era uscito unilateralmente nel maggio del 2018. Sia pure non espresso in modo esplicito, il presunto comportamento dell’Iran in violazione del JCPOA era inoltre del tutto legittimo anche secondo il dettato dell’accordo stesso, poiché derivante dal mancato rispetto di esso da parte sia degli USA sia dei paesi europei firmatari (Francia, Gran Bretagna, Germania) che poco o nulla hanno fatto per garantirne l’implementazione.

Ancora prima di questo voto al Palazzo di Vetro, il Consiglio di Sicurezza ONU aveva procurato un’altra delusione a Trump e Pompeo. Il 14 agosto era stata bocciata anche la proposta americana di estendere l’embargo sulle armi imposto a Teheran in scadenza il prossimo ottobre. A favore si erano espressi solo USA e Repubblica Dominicana, contro Russia e Cina, mentre gli altri 11 membri si erano astenuti.

A mettere la parola fine, almeno per quanto riguarda il percorso ONU, alle manovre per reintrodurre le sanzioni internazionali contro l’Iran è stato infine martedì il presidente del Consiglio di Sicurezza per il mese di agosto, l’ambasciatore indonesiano Dian Triansyah Djani, il quale ha preso atto di non avere alcuna possibilità di procedere con ulteriori iniziative sullo “snapback” richiesto dagli Stati Uniti.

La decisione del rappresentante dell’Indonesia all’ONU ha fornito l’occasione alla delegazione USA per una nuova sparata che ha confermato l’assurdità delle posizioni di Washington. La rappresentante di Trump alle Nazioni Unite, Kelly Craft, ha accusato i paesi del Consiglio di Sicurezza che hanno respinto la proposta americana di appoggiare i “terroristi”. L’ambasciatrice ha poi ammesso indirettamente la situazione di isolamento in cui si trova il suo paese sulla questione dell’Iran, sostenendo che gli Stati Uniti “non hanno paura di avere una compagnia limitata” nella campagna per la difesa del regime sanzionatorio.

Nella discussione sulla disputa all’ONU, qualcuno ha rilevato come l’agitarsi degli USA avesse poco senso fin dall’inizio, visto che le posizioni degli altri paesi erano chiare da tempo, per non parlare dell’insostenibilità delle tesi americane. Questa osservazione può essere ricondotta alle voci, alimentate dalla stessa amministrazione Trump, di un possibile e non meglio definito accordo tra Washington e Teheran nei prossimi mesi. La fallita offensiva al Palazzo di Vetro sarebbe stata quindi poco più di una manovra elettorale per stimolare gli ambienti anti-iraniani sul fronte domestico.

I leader di USA e Iran hanno fatto recentemente svariati accenni a un possibile accordo. Trump, nel fine settimana, ha assicurato ad esempio che, in caso di rielezione, potrebbe raggiungere un’intesa con la Repubblica Islamica in appena quattro settimane. Il presidente iraniano, Hassan Rouhani, che un accordo lo negozierebbe volentieri se non fosse per le resistenze dei conservatori in patria, ha risposto cautamente, premettendo che gli Stati Uniti dovrebbero prima scusarsi per il loro comportamento e tornare a riconoscere l’accordo di Vienna.

Per lo stesso Rouhani, le speranze sarebbero riposte in un secondo mandato di Trump, il quale, una volta svincolatosi dalle esigenze di natura elettorale e dagli obblighi con i suoi sostenitori, potrebbe perseguire più liberamente un percorso di distensione con l’Iran. Queste previsioni sono probabilmente troppo ottimistiche. Le posizioni dei moderati o “riformisti” filo-occidentali in Iran si sono notevolmente indebolite negli ultimi anni, in parte anche a causa della linea dura di Washington, e non vi è alcuna garanzia che a Teheran ci sia disponibilità a trattare con il nemico a stelle e strisce.

Gli ostacoli maggiori sono ad ogni modo negli Stati Uniti. Se mai fosse stato necessario ricordare l’impegno americano per isolare e strangolare l’Iran, la trasferta del segretario di Stato Pompeo di questa settimana lo ha confermato un’altra volta. Nella prima tappa a Gerusalemme, l’ex direttore della CIA ha dedicato buona parte della conferenza stampa col premier israeliano Netanyahu a elencare le inesistenti minacce rappresentate dalla Repubblica Islamica.

Pompeo ha poi debitamente rassicurato l’alleato circa l’intenzione americana di continuare a garantire il margine di vantaggio militare di Israele sui propri vicini mediorientali. Il riferimento immediato è la vendita di armamenti USA agli Emirati Arabi, con cui il governo Netanyahu ha appena finalizzato un accordo per stabilire relazioni diplomatiche ufficiali, ma in esso va anche letta una minaccia velata contro l’Iran.

Dopo Gerusalemme, Pompeo si è recato in Sudan, viaggiando sul primo volo diretto della storia tra Israele e il paese africano. A Khartoum, il capo della diplomazia USA ha con ogni probabilità ricattato i leader del governo di transizione, installato dopo il rovesciamento di Omar al-Bashir nell’aprile del 2019, per convincerli a normalizzare i rapporti con Israele in cambio della rimozione del loro paese dalla lista degli sponsor del terrorismo.

La questione delle relazioni tra Israele e i paesi arabi sunniti è un’altra arma che gli Stati Uniti intendono usare per fare pressioni sull’Iran. Se anche alcuni di essi già intrattengono rapporti informali con lo stato ebraico, principalmente proprio in funzione anti-iraniana, l’ufficializzazione di questa realtà resta un affare delicato. Il motivo è da ricercare nella causa palestinese, per la quale i paesi arabi sono almeno formalmente ancora impegnati, rendendo a dir poco impopolare il sostanziale riconoscimento di Israele e dei suoi crimini.

La risposta sudanese agli inviti americani è stata perciò prudente. Il regime provvisorio guidato dai militari si è nascosto dietro la necessità di delegare la decisione sui rapporti con Israele al governo che uscirà alla fine del processo di transizione. Le stesse perplessità le sta nutrendo peraltro anche il principale alleato arabo in Medio Oriente di Washington, l’Arabia Saudita, il cui ascendente sul Bahrein, altra tappa del viaggio di Pompeo assieme a Emirati e Oman, rende cauto sulla questione anche il piccolo regno del Golfo Persico.

Per quanto riguarda ancora la strategia di “massima pressione” americana sull’Iran, gli strumenti in mano a Washington restano molteplici, anche se dall’efficacia sempre più dubbia. Uno di essi è l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), il cui neo-direttore generale, Rafel Grossi, è stato protagonista questa settimana di una visita di due giorni nella Repubblica Islamica. Il clima delle discussioni sembra essere stato sereno e l’Iran ha ribadito la propria disponibilità a collaborare con l’agenzia dell’ONU.

L’AIEA punta tuttavia a ispezionare almeno due impianti nucleari iraniani, le cui attività sono state chiarite da tempo, in conseguenza di un recente rapporto scaturito da input israeliani e americani altamente fuorvianti. Teheran ha alla fine dato il via libera alla visita dei entrambi gli impianti, ma ha fissato dei paletti all’uso strumentale delle ispezioni, spiegando fermamente che non saranno accettate richieste che vanno al di là degli impegni assunti dall’accordo del 2015 e di quanto previsto dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare.

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