Per la prima volta dal 1992, un presidente in carica non viene rieletto per il secondo mandato. Soprattutto, per la prima volta, più che generare attese per chi arriva, produce sospiri di sollievo ed allegria per la cacciata di chi c’era. Perché? Perché quella di Biden non é una vittoria che prelude ad un cambiamento di sostanza. Dal punto di vista dello stile di governo è evidente come Biden disponga di una educazione formale ed una cultura politica che lo differenzia anni luce dal cafone testè sfrattato ed anche sotto il profilo comportamentale appare difficile assimilarli. Improbabile sentire Biden che definisce shithole i paesi del sud del mondo, che propone di usare armi nucleari contro un tifone o candeggina contro il Covid; questo almeno ci verrà risparmiato.

Ma se sul piano estetico la differenza sarà evidente, così non sarà nella sostanza delle scelte di fondo. Ambedue sono convinti sostenitori del modello e strenui difensori dell’eccezionalismo statunitense, che altro non è se non l’interpretazione giustificativa dell’imperialismo. Entrambi ritengono che la finanza debba essere la leva centrale del sistema economico e che le banche debbano recitare il ruolo di direzione tecnico-politica delle politiche fiscali. Entrambi accettano che siano le grandi corporation a indicare la barra delle politiche socioeconomiche ed entrambi credono che il ruolo dello Stato debba ridursi a quello di un corpo intermedio che si colloca tra i cittadini e i poteri forti, con i primi nel ruolo di vittime e i secondi in quello di carnefici.

 

Ma, soprattutto, entrambi vogliono che sia l’intero pianeta a pagare i conti del modello statunitense, ovvero quello che prevede che il 4,5% della popolazione mondiale consumi, da sola, circa il 34% delle risorse disponibili e che, producendone solo l’11, debba andare a prendere quelle che mancano dalle risorse di altri paesi e che, per giunta, non debba pagarle. Perché questo accada servono destabilizzazione e guerre e dunque è necessario un apparato bellico all’altezza. Le sei flotte navali e le 725 basi militari con 300.000 soldati sparse per il mondo servono a garantire che il piano si possa concretizzare.

Insomma entrambi credono che gli Stati Uniti possano e debbano depredare, uccidere, occupare Paesi e controllare le risorse di tutti, impedire che possano darsi competizioni o differenze con loro. Il modello, privato di tecnicismi e sofismi, ha una fisionomia feudale che è in sostanza questa: gli USA comandano e il resto del mondo obbedisce.

Dunque emozionarsi per Biden appare fuori luogo ma dispiacersi per Trump (come alcuni apparentemente di sinistra propongono) è decisamente improponibile. Non sentiremo la mancanza del Ku Klux Klan e dei nazievangelici alla Casa Bianca. Non mancherà un presidente che inneggia alla polizia ad ammazzare neri e ispanici. Non piangeremo per l’uscita di scena di una belva ignorante che strappa i figli alle proprie madri e li rinchiude in gabbia. Non ci dispiacerà sapere che quel muro che così tanto voleva alla fine è stato costruito con schede elettorali con il nome del suo avversario.

Coloro che ritengono Trump un sacrificio sopportabile contro il globalismo statunitense presentato con buone maniere e politicaly correct dai dem, sembrano propensi ad assegnare al tycoon una ricetta per la ricrescita dell’economia statunitense che parte dalla generazione di lavoro, necessaria per far ripartire la domanda interna ed i consumi. Ma è una illusione ottica, la realtà ha raccontato numeri completamente diversi. Si attendeva un contenimento del deficit commerciale, pur in presenza di un maggior debito estero, ma così non è stato: aumentati entrambi a livelli mai conosciuti e mancata riduzione del debito estero.

Sarebbe scorretto e in buona misura insincero ritenere che la condizione di seria difficoltà nella quale versano gli USA sia solo figlia di questi ultimi 4 anni, ma certo è che l’arrivo di Trump ha esacerbato ulteriormente il fallimento di un modello darwiniano ed escludente. Nel Paese dove vive il 41% delle persone più ricche dell’intero pianeta, 48 milioni di americani sono senza un tetto sicuro e faticano a far fronte alle necessità. Un milione e mezzo di ragazzi non hanno accesso all’istruzione secondaria. 12 milioni di statunitensi sono privi di qualunque assicurazione sanitaria (fino all’arrivo di Trump potevano almeno utilizzare l’Obamacare, il sistema pubblico riformato da Barak Obama). Il Medicare, che Trump ha privato dei fondi, è l’ombra di quel pur minimo che fu e non vi sono margini di ripensamento, nemmeno di fronte a una pandemia i cui esiti, grazie proprio alla totale privatizzazione della salute, sono drammatici. Si fatica a trovare qualcosa che possa risultare ascrivibile al “meno peggio” visto che ha ordinato vantaggi di ogni tipo per la parte più ricca del Paese e per le grandi corporation.

Gli stessi che indicano in Trump il “male minore” ritengono poi che in politica estera, a conti fatti, abbia avuto la mano leggera in confronto allo spirito guerrafondaio dei suoi ultimi predecessori, Obama compreso. Ma le cose poi stanno proprio così?

Dell’establishment democratico, che vive di russofobia e politically correct è bene diffidare ma la fobia anticinese di Trump non era meno pericolosa. Vero è che la storia USA propone l’adagio per il quale i democratici cominciano le guerre che i repubblicani chiudono, ma oltre ad essere un luogo comune non sempre riscontrato nella realtà, va detto che con Trump il livello dell’arroganza imperiale si è manifestato senza distinguere nemmeno tra avversari ed alleati. Ha disconosciuto gli accordi sul clima raggiunti a Parigi e si è ritirato dalla Commissione Onu per i diritti umani. Ha cancellato l’accordo con l’Iran per favorire Israele. Ha spostato l’ambasciata statunitense in Israele a Gerusalemme, infliggendo un colpo mortale al già agonizzante piano di pace, al Diritto Internazionale ed al rispetto della neutralità dei tre culti monoteisti.

Ha deciso il ritiro dal trattato sui missili balistici a medio raggio con la Russia che ha reso l’Europa un bersaglio prima che un alleato. Trump – è vero – non ha iniziato guerre e, a parte un bombardamento sulla Siria ordinato sulla scia di una menzogna mediatico-politica che assegnava alle truppe di Assad un attacco chimico mai avvenuto, non ha dato via libera ad attacchi militari in giro per il mondo. Ma questo non può ridurre il peso della pressione violenta che ha esercitato inasprendo blocchi, imponendo sanzioni (75 Paesi le subiscono) minacciando interventi militari e promovendo colpi di stato (Bolivia), tentati colpi di Stato (Nicaragua e Venezuela) e inasprendo ogni giorno i blocchi criminali contro Cuba e Venezuela. Questa amministrazione, in disprezzo degli organismi internazionali, ha appaltato in outsourcing la politica internazionale, consegnandosi ad Arabia Saudita e Israele nello scenario che va da Gibilterra ai Dardanelli e al Golfo Persico, mentre alla lobby terroristica e mafiosa cubano-americana della Florida ha consegnato le politiche in America Latina.

Non un soldato né una base militare è stato richiamato dai teatri di guerra, non una base è stata smantellata, non una occupazione di suolo straniero è stata rivista, diversamente da ciò che promise per farsi eleggere. In compenso i cappucci bianchi del Ku Klux Klan e le sette nazievangeliche hanno affollato la Casa Bianca in questi 4 anni: il segregazionismo ed il suprematismo, prodotti rancidi di alcune minoranze in alcuni stati, grazie a Trump hanno trovato un loro ruolo politico.

Non gioire per Biden è lecito, ma nessuna tristezza per la cacciata di Trump. Non sarà Biden che disegnerà gli Stati Uniti rispettosi del multilateralismo e del Diritto Internazionale, ma nessuna nostalgia per chi lo ha preceduto può avere luogo.

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