Dopo un mese e mezzo di durissimi combattimenti, Armenia e Azerbaigian si sono accordati su un cessate il fuoco definitivo, grazie alla mediazione russa, che prospetta un cambiamento significativo della configurazione territoriale dell’enclave armena del Nagorno-Karabakh. Per Yerevan si tratta di una sconfitta difficile da sopravvalutare, mentre Baku può ritenere soddisfatti buona parte degli obiettivi rimasti frustrati per tre decenni. La Turchia di Erdogan, infine, mette un altro tassello alla propria ambiziosa politica di espansione, anche se, per quanto riguarda la regione caucasica, non ha potuto far altro che accettare i limiti imposti dal Cremlino.

 

Già l’identità dei firmatari dell’accordo la dice lunga sulla forza risultata determinante nella de-escalation del conflitto. Putin, il presidente azero Ilham Aliyev e il primo ministro armeno Nikol Pashinyan hanno finalizzato una trattativa il cui esito riflette una situazione sul campo dagli equilibri ormai acquisiti e che lasciava intravedere prospettive poco incoraggianti per entrambe le parti. Da considerare c’è inoltre il fatto che lo stop alle ostilità nei termini favoriti da Mosca è stato suggellato poche ore dopo l’abbattimento accidentale di un elicottero russo Mi-24 da parte dei militari azeri.

Il velivolo stava scortando un convoglio russo in territorio armeno al confine con l’Azerbaigian. Il governo di Baku si è immediatamente scusato per l’incidente, promettendo un’indagine per punire i responsabili dell’accaduto. L’episodio, costato la vita a due militari russi, ricorda quello del 2015, quando la contraerea turca colpì un Su-24 russo nello spazio aereo siriano. La Russia reagì furiosamente, ma, dopo le quasi scuse di Erdogan, l’incidente non innescò ritorsioni eccessive da parte di Putin, salvo l’imposizione di alcune sanzioni, e servì piuttosto a lanciare una nuova fase delle relazioni tra Mosca e Ankara con importanti implicazioni per il Medio Oriente e non solo.

In ogni caso, le condizioni della difesa armena erano diventate quasi disperate negli ultimi giorni. Nel fine settimana, le forze azere, appoggiate in maniera decisiva dalla Turchia, avevano fatto progressi determinanti verso la seconda città del Nagorno-Karabakh, Shusha, poi conquistata probabilmente già nella mattinata di domenica. Da questa località si domina e raggiunge facilmente la capitale della regione autonoma, Stepanakert, così che l’imminente irruzione dell’esercito azero, che ha anche strappato a Yerevan il controllo della via d’accesso all’enclave, ha costretto il premier armeno Pashinyan a cedere e ad accettare sostanzialmente la resa.

A conferma che l’accordo entrato in vigore alla mezzanotte di lunedì ratifica la vittoria dell’Azerbaigian c’è innanzitutto il congelamento delle posizioni delle due parti in guerra. Questa condizione consolida la presenza azera nella città strategica di Shusha e, come già anticipato, il controllo della strada che collega l’Armenia al Nagorno-Karabakh. Il corridoio resterà comunque accessibile grazie al dispiegamento di quasi duemila “peacekeepers” russi, i quali resteranno per un periodo prorogabile di cinque anni anche lungo la nuova “linea di contatto” in Nagorno Karabakh. La regione a maggioranza armena conserverà la propria autonomia nell’ambito dello stato azero. L’accordo non prevede esplicitamente l’impiego di soldati di Ankara, ma il presidente dell’Azerbaigian Aliyev ha garantito che anche l’alleato turco sarà coinvolto nelle operazioni.

In definitiva, l’Azerbaigian ha potuto riconquistare una parte del territorio che aveva perso dopo il conflitto tra la fine degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta del secolo scorso. L’Armenia perde invece dopo più di un quarto di secolo il controllo su una regione ritenuta fondamentale per la propria identità nazionale, con conseguenze politiche interne che non tarderanno a farsi sentire. Nell’annunciare la firma dell’accordo con Baku, Pashinyan ha ammesso la gravità delle scelte a cui è stato costretto, sia pure cercando di negare che il suo paese ha dovuto incassare una sconfitta. Dopo la notizia del cessate il fuoco, però, sono scoppiate accesissime proteste nella capitale armena. Manifestanti infuriati hanno fatto irruzione nel palazzo del governo e messo a ferro e fuoco l’ufficio del primo ministro.

Sulla stampa internazionale si sta discutendo sul presunto cedimento di Putin di fronte a una situazione militare drammatica per l’alleato armeno, oltretutto dovendo accettare l’ingresso di un nuovo attore – la Turchia – nel “giardino di casa” del Caucaso. Se quest’ultima realtà è in effetti un dato incontestabile, va considerato in primo luogo che la Russia ha assunto fin dall’inizio della crisi una posizione pragmatica, motivata dal desiderio di mantenere i buoni rapporti intrattenuti sia con Armenia che con Azerbaigian, per non parlare della partnership strategica con Ankara.

Da subito, Putin aveva messo in chiaro che un intervento diretto a fianco di Yerevan, previsto dal trattato militare di cui i due paesi fanno parte (CSTO), sarebbe stato possibile solo se l’Armenia fosse stata attaccata sul proprio territorio. La premessa di questa posizione è che il controllo armeno del Nagorno-Karabakh e, ancor più, di una parte di territorio azero al di fuori dell’enclave, è contrario al diritto internazionale e la Russia ha sempre riconosciuto questa realtà.

È necessario ricordare anche che il trionfo militare dell’Azerbaigian, o presunto tale, ha avuto un costo elevatissimo in termini di vittime civili e militari. Inoltre, la prosecuzione delle operazioni sul campo rischiava appunto di trascinare la Russia nel conflitto, allargandolo pericolosamente e con conseguenze molto pesanti anche per Baku. L’avanzata delle forze azere le avrebbe costrette a combattere in una zona montagnosa e impervia, resa ancora più difficile dall’arrivo dell’inverno. Il supporto logistico e militare turco, infine, anche se finora decisivo, stava venendo meno, soprattutto per quanto riguarda la fornitura di droni, molti dei quali abbattuti e difficilmente rimpiazzabili per via di un parziale embargo internazionale imposto alle importazioni turche di alcuni componenti utilizzati per la loro realizzazione.

Da un altro punto di vista, perciò, Mosca si è sì rassegnata all’irruzione della Turchia nel Caucaso, ma ha per così dire preso atto di una situazione difficile da contrastare nel quadro delle dinamiche strategiche odierne. Putin, cioè, è riuscito a limitare la presenza di Ankara in quest’area, vincolandola in qualche modo alla leadership russa, e ha operato soprattutto in modo da non rompere i legami sia pure complicati con Erdogan. Un gioco di equilibri quello di Putin che appare indispensabile se si pensa alle tensioni tra Ankara e l’Occidente, inclusi gli alleati NATO, oltretutto in vista di un avvicendamento alla Casa Bianca che rischia di peggiorare ulteriormente i rapporti tra Washington da una parte e Russia e Turchia dall’altra.

Le stesse conseguenze sull’Armenia del probabile epilogo della crisi in Nagorno-Karabakh promettono risultati favorevoli per il Cremlino. L’alleanza con Yerevan era stata messa a dura prova dalla sorta di “rivoluzione colorata” avvenuta nel 2018 e che aveva portato al potere Pashinyan, intenzionato quanto meno a riequilibrare gli orientamenti strategici del suo paese guardando sempre più a occidente.

Questa situazione sembrava avere messo la Russia nella posizione paradossale di dover difendere l’alleato armeno anche se la priorità era di conservare i buoni rapporti con Azerbaigian e Turchia. L’accordo sulla fine delle ostilità è perciò in questa prospettiva una soluzione che risponde innanzitutto agli obiettivi del Cremlino, per lo meno alla luce degli scenari che si erano venuti a creare. Inoltre, l’umiliazione di Pashinyan, ritrovatosi senza l’aiuto sperato dell’Occidente, potrebbe favorire un avvicendamento alla guida dell’Armenia probabilmente favorevole a Mosca, visto che Yerevan non sembra al momento poter contare su altri alleati se non appunto la Russia.

L’accordo sul Nagorno-Karabakh è in ogni caso solo la parte iniziale di un processo che dovrebbe risolvere definitivamente una crisi ereditata dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. L’intrecciarsi con altre vicende caldissime che coinvolgono svariate potenze globali e regionali rende la situazione nel Caucaso ancora esposta al rischio di precipitare. Per il momento, tuttavia, il peggio sembra poter essere evitato.

Gli eventi di queste ultime settimane hanno così dimostrato, a fronte dell’impotenza occidentale, come la Russia resti la principale forza stabilizzatrice nelle aree di crisi dove pure sono in gioco i propri interessi. Non solo, per quanto Erdogan ostenti i successi delle sue ambizioni neo-ottomane, la Turchia continua a dover fare i conti con la Russia, così nel Caucaso come in Siria e in Libia. Ciononostante, la vicenda del Nagorno-Karabakh dimostra che la partnership strategica tra Mosca e Ankara, anche se data da molti sull’orlo del fallimento, resta viva e in grado di produrre risultati nello spazio euro-asiatico, con buona pace delle illusioni delle cancellerie occidentali.

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