Il comportamento tipico di Israele quando diventa bersaglio di critiche legittime non consiste nell’accettazione di queste e nella messa in atto di iniziative per correggere il proprio comportamento, come dovrebbe essere per uno stato democratico, bensì nel tentativo di zittire i suoi accusatori, se non di metterli addirittura fuori legge. Questo copione è stato seguito ancora una volta dall’attuale governo di Tel Aviv dopo che qualche giorno fa una delle più autorevoli organizzazioni israeliane a difesa dei diritti umani – B’Tselem – ha pubblicato un rapporto nel quale lo stato ebraico viene definito niente meno che un regime basato sull’apartheid.

 

B’Tselem ha scritto senza equivoci che “l’intera area che va dal Mediterraneo al fiume Giordano è organizzata secondo un unico principio: promuovere e consolidare la supremazia di un popolo – quello ebraico – su di un altro – quello palestinese”. Questa definizione corrisponde alla perfezione a quella di apartheid, nonostante Israele continui a essere considerato, soprattutto in Occidente, una democrazia che, per quanto riguarda la Palestina, implementa un regime di occupazione soltanto “temporaneo”.

“Organizzando lo spazio geografico, demografico e fisico”, continua il rapporto, “il regime consente agli ebrei di vivere in un’area contigua e con pieni diritti, incluso quello all’auto-determinazione, mentre i palestinesi vivono in unità separate e godono di meno diritti”. Per il direttore esecutivo di B’Tselem, Hagai El-Ad, Israele non è dunque una democrazia, visto che da uno sguardo “al quadro d’insieme” emerge appunto un regime che applica sistematicamente la segregazione del popolo palestinese.

L’apartheid è definito dal diritto internazionale come un crimine contro l’umanità, in quanto “atto inumano commesso nel contesto di un regime istituzionalizzato per l’oppressione e la dominazione sistematica di un gruppo razziale su di un altro gruppo o gruppi, con l’intenzione di perpetuare questo stesso regime”.

L’accostamento di Israele al concetto di apartheid non è nuovo e rappresenta inoltre la presa d’atto di una realtà da tempo sotto gli occhi di tutti. A livello accademico e tra gli esperti di questioni legate ai diritti umani questa definizione è stata usata più volte nel recente passato. Anche un paio di “relatori” dell’ONU erano giunti a questa conclusione, così come, più recentemente, un’altra organizzazione israeliana, Yesh Din. Quest’ultima si riferiva però all’operato di Israele in Cisgiordania. B’Tselem, invece, disegna un quadro dove l’apartheid impregna anche il territorio dello stato israeliano propriamente detto.

Il rapporto di B’Tselem sembra indicare un’involuzione di Israele, accelerata in particolare dall’introduzione della cosiddetta legge sullo “stato-nazione” nel 2018. Con questo provvedimento è stato fissato a fondamento dello stato il principio della supremazia ebraica. Come corollario, la legge promuove e incoraggia gli insediamenti illegali nei territori palestinesi, considerati addirittura un “valore nazionale”, così come esclude gli arabi dalle comunità ebraiche e la loro lingua da quelle riconosciute ufficialmente. In sostanza, la legge disegna il quadro legale del regime di apartheid israeliano, il quale liquida anche formalmente l’impegno dello stato per l’uguaglianza dei propri cittadini e legittima l’oppressione del popolo palestinese.

Come spiegato in precedenza, la segregazione implementata da Israele grava su tutte le categorie di palestinesi che vivono “dal Mediterraneo al fiume Giordano”, indipendentemente dallo status dei vari territori. Quelli in Cisgiordania, a Gaza, a Gerusalemme Est e nei confini ufficiali dello stato ebraico hanno in realtà diritti di diverso genere, ma per tutti risultano minori rispetto a quelli goduti dagli ebrei che vivono nelle stesse aree o che, nel caso di Gaza, dove non ci sono insediamenti, ne controllano di fatto tutti gli aspetti politici, economici e sociali.

Il rapporto di B’Tselem è stato citato dalla maggior parte dei media occidentali, anche se ci sono state eccezioni rilevanti, come quella del New York Times, e pochi o nessun commento apertamente critico nei confronti di Israele. Il governo di questo paese ha invece prevedibilmente reagito in maniera feroce, prospettando misure repressive in linea con la natura delle accuse che gli vengono rivolte. Il primo ad annunciare provvedimenti concreti contro B’Tselem è stato il ministro dell’Educazione, Yoav Galant, il quale ha fatto sapere di avere ordinato il divieto di tenere lezioni e discorsi nelle scuole a quelle organizzazioni che definiscono Israele uno stato di apartheid o che denigrano i militari israeliani.

Il ministro del governo Netanyahu sembrerebbe far riferimento a una legge anti-democratica del 2018, secondo la quale queste attività educative, svolte regolarmente da B’Tselem, sono vietate a coloro che appoggiano o hanno intrapreso azioni legali contro i soldati israeliani. La legge era stata adottata in risposta alle denunce dei crimini dello stato ebraico nell’occupazione della Cisgiordania da parte di un gruppo di ex militari israeliani chiamato “Breaking the Silence”. La misura che intende prendere il ministro dell’Educazione Galant potrebbe essere solo l’inizio di un’offensiva contro B’Tselem, ma è già di per sé molto grave, dal momento che punta a colpire qualsiasi attività di sensibilizzazione degli studenti israeliani sulla natura criminale del loro paese in relazione al trattamento dei palestinesi.

Tornando al merito del rapporto di B’Tselem, vanno sottolineate almeno due implicazioni non espresse direttamente ma sollevate dalla definizione di Israele come “regime di apartheid”. La prima è il riconoscimento dell’impercorribilità dei “due stati” come soluzione alla questione palestinese. Il via libera all’espansione incontrollata degli insediamenti illegali e, probabilmente, nel prossimo futuro anche all’annessione di parte della Cisgiordania, in parallelo ai recenti accordi tra Israele e alcuni paesi arabi nonostante la realtà dell’apartheid, distrugge infatti anche l’illusione finora alimentata di dare vita a uno stato palestinese indipendente.

La seconda è invece la conferma del fallimento del progetto sionista per la creazione di un paese-rifugio per i soli ebrei autenticamente democratico e inclusivo. Questa logica ha portato allo sradicamento violento e all’emarginazione della popolazione palestinese, trasformando l’unico paese nominalmente democratico in Medio Oriente in un regime basato appunto sulla segregazione e che opera quotidianamente nella violazione deliberata del diritto internazionale.

Che un’organizzazione autorevole, indipendente e, soprattutto, israeliana abbia espresso questo durissimo e umiliante giudizio su Israele conferma infine l’infondatezza e la natura deliberatamente menzognera della linea difensiva adottata dallo stato ebraico e dai suoi sostenitori di fronte alle accuse derivanti dai crimini commessi contro il popolo palestinese. Quasi sempre, cioè, queste critiche vengono equiparate all’antisemitismo, anche se, come ha confermato il recente rapporto di B’Tselem, appaiono legittime e basate su un’analisi oggettiva del comportamento di Israele.

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