di Agnese Licata

Quando l’aereo si allontana dalla pista dell’aeroporto di Entebbe, abbandonando il suolo ugandese e il sangue delle migliaia di morti di cui è impregnato, per condurre il protagonista e una parte degli ostaggi verso l’Europa, verso la salvezza, è difficile provare quel senso di liberazione che la stessa colonna sonora de “L’ultimo re di Scozia” cerca di suggerire. Perché il dramma attraversato dall’Uganda sotto la dittatura di Idi Amin Dada (nel film interpretato dal premio Oscar Forest Withaker), il dramma dei continui colpi di Stato da parte dell’esercito, delle segrete regie occidentali, della repressione violenta di qualsiasi opposizione politica e civile, dell’assoluta indifferenza alla povertà della popolazione, rimane lì, non scompare certo con l’avvio del declino di Amin. È destinato a riproporsi per decenni, in Uganda come in gran parte del continente nero. Se “Blood diamonds” – l’altro film che quest’anno ha portato nelle sale di tutto il mondo un pezzo d’Africa – affronta il sempre attuale tema del saccheggiamento delle risorse da parte delle multinazionali occidentali, “L’ultimo re di Scozia” (film di Kevin MacDonald, tratto dall’omonimo romanzo di Giles Foden) ruota attorno alla figura di un giovane medico scozzese che decide di partire per l’Uganda, più per spirito d’avventura che per vocazione umanitaria.
Nicholas Garrigan (impersonato da James McAvoy) lungo tutto il film rappresenta, in modo indiretto, il rapporto tra certi dittatori e le ex nazioni colonizzatrici, quell’atteggiamento irresponsabile e opportunista con cui queste hanno spesso appoggiato l’ascesa al potere di loschi figuri, nella speranza di poter così continuare a dettar legge in quei Paesi. Così come Garrigan, diventando medico e consigliere personale di Amin finisce per favorisce le sue violenze, allo stesso modo l’Inghilterra, appoggiando il colpo di Stato che nel 1971 destituì Milton Obote, divenne corresponsabile di un regime che, secondo una stima di Amnesty International, ha mietuto nei suoi otto anni fino a 500mila vittime.

Idi Amin, del resto, era considerato dagli inglesi un proprio uomo. Fin dal 1946, infatti, era entrato a far parte dell’esercito coloniale che la Gran Bretagna aveva creato nella parte est dell’Africa. Nel 1954 aveva addirittura ottenuto la carica militare più alta per un uomo di colore. Viceversa Obote aveva commesso, agli occhi degli ex colonizzatori, due errori imperdonabili: dirsi socialista in piena guerra fredda e, soprattutto, aver portato l’Uganda all’indipendenza (1962). E allora perché non appoggiare la nascente opposizione dell’esercito alla guida di Amin?
Non che Milton Obote fosse uno stinco di santo. Qualche anno dopo aver deposto la regina Elisabetta II dal ruolo di capo dello Stato ugandese, il Parlamento chiese un’inchiesta sul suo ruolo nel furto di oro, caffè e avorio ai danni della confinante Repubblica democratica del Congo. Per tutta risposta, Obote sospese la Costituzione, si attribuì poteri speciali e fece arrestare gli oppositori. Colpa, quest’ultima, del tutto irrisoria agli occhi degli inglesi, ai quali infastidiva molto di più la sua “deriva” indipendentista.

Fu quindi grazie all’appoggio inglese che Idi Amin ebbe successo col suo colpo di Stato. Un’azione che anche gli altri Paesi occidentali videro con favore, proprio per l’etichetta di socialista che veniva attribuita a Obote. Come se avesse un senso attribuire categorie politiche del genere a una nazione da sempre caratterizzata da ben altri contrasti tribali e religiosi.
Ben presto, però, quello che un rapporto interno del ministero degli Esteri inglese definiva come “a splendid type and a good football player” (un tipo splendido e un buon giocatore di football) iniziò a prendere iniziative non molto gradite. Nel 1972 Amin costrinse con la forza i circa 50mila asiatici residenti in Uganda ad abbandonare il Paese. Una scelta che danneggiò ulteriormente la già fragile economia ugandese. La presenza indiana era molto radicata e risaliva al periodo del colonialismo inglese. Fin da subito, inoltre, Idi Amin Dada iniziò a uccidere coloro che erano anche solo sospettati di tramare alle sue spalle.

A decretare la fine dell’appoggio occidentale al uso regime fu però il suo progressivo spostamento verso l’asse sovietico, in particolare verso la Libia di Gheddafi. Così, nel 1973, gli Stati Uniti decisero di chiudere la propria ambasciata a Kampala.
Non a caso il film si chiude sulla crisi degli ostaggi, nella quale il regime di Amin ebbe un ruolo fondamentale. Nel 1976 un aereo dell’Air France diretto ad Atene e con a bordo 256 passeggeri fu dirottato da esponenti dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina). Amin offrì ai palestinesi la possibilità di atterrare all’aeroporto di Entebbe, a una trentina di chilometri da Kampala. Un aereo ugandese, poco dopo, trasportò i passeggeri non ebrei e non israeliani in Europa. Fu con quest’azione che l’opinione pubblica conobbe l’Uganda.

Dal 1979, anno in cui il regime di Idi Amin cadde per mano delle truppe tanzaniane, l’Uganda ha conosciuto altri colpi di Stato, fino a quello che nel 1986 ha portato al potere l’attuale presidente Yoweri Museveni. Nonostante l’emanazione di una nuova costituzione nei primi anni Novanta, la pace firmata con i ribelli, le prime elezioni dirette del presidente e l’avvio di un periodo politicamente più stabile, la storia dell’Uganda ha continuato a conoscere morti e violenza. Negli anni Novanta le truppe ugandesi sono più volte entrate in conflitto con quelle congolesi. Sempre nello stesso periodo, poi, si è espanso sempre più il movimento armato di Joseph Kony, battezzato dal 1994 Lra, Esercito di resistenza del Signore, con l’intenzione di prendere il potere e governare secondo i dieci comandamenti. Il Lra ha scatenato una guerra civile, colpendo con i suoi attacchi anche la popolazione inerme e rendendosi responsabile del rapimento di migliaia di bambini per arruolarli alla sua “sacra” guerra. Gli scontri continuano ancora oggi soprattutto nelle regioni settentrionali del Paese, dove può vantare l’appoggio del Sudan.

Nel 2004, di fronte alle difficoltà per il governo Museveni di fronteggiare la guerriglia e l’emergenza umanitaria, l’Uganda ha deferito il conflitto all’International Criminal Court delle Nazioni Unite. Un anno dopo la Corte ha spiccato dei mandati di cattura per i guerriglieri e per il loro leader Kony. Ma ancora nel Paese persiste una situazione di stallo, che non è stata sbloccata neanche dalle prime elezioni multipartitiche svoltasi nel 2006 e che hanno riconfermato, ancora una volta, Museveni.

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