“Non si tratta di fiducia. Ma dei nostri interessi e della verifica di questi stessi interessi”. In questa frase pronunciata da Joe Biden dopo il faccia a faccia con Vladimir Putin è riassunto in sintesi il senso del vertice di mercoledì a Ginevra. A spiegare l’incontro, voluto dalla Casa Bianca, è in altre parole l’ipotesi di una svolta tattica da parte americana per congelare o, quanto meno, attenuare lo scontro con Mosca, liberando risorse ed energie da dedicare a più gravi minacce “sistemiche”. In questa prospettiva, per comprendere le implicazioni del summit, è fondamentale collegarlo ai precedenti appuntamenti in Europa del presidente democratico, impegnato in sede di G7 e NATO a compattare il fronte degli alleati in funzione anti-cinese.

 

I risultati concreti dell’evento di mercoledì sono stati inevitabilmente limitati, ma il clima è apparso tutto sommato disteso e a tratti cordiale. Dei molti temi in agenda i due leader hanno parlato senza arrivare a soluzioni concrete per avvicinare le rispettive posizioni. I rapporti bilaterali sono d’altra parte così deteriorati che l’accordo trovato per il ritorno dei due ambasciatori nelle sedi di Mosca e Washington è stato l’unico risultato tangibile delle quasi tre ore di colloquio.

In prospettiva, è però l’impegno a lavorare ad una “stabilità strategica” che promette, almeno in teoria, di produrre gli effetti più positivi. A ciò va condotto il rilievo dato dal comunicato congiunto alla necessità di tornare a un regime di trattati sul controllo e la limitazione di armamenti letali. Il trattato “Nuovo START”, recentemente prolungato, potrebbe essere a questo proposito un punto di partenza, mentre più in generale Putin e Biden hanno sottoscritto il principio dell’impossibilità di vincere una guerra nucleare che, quindi, “non dovrà mai essere combattuta”.

Significativi sono anche alcuni temi specifici apparentemente lasciati fuori dal vertice, al preciso scopo di evitare tensioni con Putin. La questione ucraina è emblematica in questo senso. Del ritorno della Crimea all’Ucraina non si è fatto ad esempio cenno né nelle conferenze stampa separate dei due leader né nel documento finale. Sulla possibilità dell’ingresso di Kiev nella NATO si è allo stesso modo sorvolato e, anzi, il faccia a faccia era stato preceduto da una dichiarazione di Biden nella quale aveva escluso questa eventualità, definendo l’Ucraina “non pronta” per l’ammissione al Patto Atlantico. Quando di Ucraina si è parlato lo si è fatto per rilanciare l’impegno all’implementazione del “Protocollo di Minsk” per la risoluzione della crisi nel Donbass.

Qualche scintilla, anche se ben al di sotto del livello di guardia, c’è stata invece su altre questioni, come la detenzione del “dissidente” anti-Putin, Alexey Navalny, la situazione più generale dei diritti umani in Russia, ma anche in America, e i presunti “cyber-attacchi” condotti o approvati dal Cremlino ai danni dei sistemi informatici governativi o privati negli Stati Uniti. A evitare dissidi a livello pubblico è stata anche la decisione di Biden di non partecipare a una conferenza stampa congiunta con Putin, nella quale oltretutto il presidente russo avrebbe potuto mettere in serio imbarazzo il suo interlocutore.

I toni del faccia a faccia hanno ad ogni modo deluso le aspettative della stampa “mainstream” americana e dei “falchi” di Washington. In questi ambienti ci si attendeva che l’evento di Ginevra diventasse l’ennesima occasione per il lancio di feroci attacchi contro il regime di Putin e di nuove iniziative politiche, economiche e militari ancora più dure nei confronti di Mosca. L’attitudine di Biden non è stata invece evidentemente questa, anche se ci sono state alcune prese di posizione in apparenza più ferme, come la minaccia di conseguenze se Navalny morisse in carcere o se gli attacchi informatici russi, peraltro tutti da dimostrare, dovessero prendere di mira una serie di obiettivi considerati “off-limits” dalla Casa Bianca.

Dietro alla decisione di confrontarsi con Putin a pochi mesi dall’insediamento di Biden c’è probabilmente allo studio una manovra di natura tattica che punta ad allentare le tensioni tra Stati Uniti e Russia, nel tentativo, tutt’altro che scontato, di ostacolare il processo di integrazione a tutto campo in atto tra Mosca e Pechino. Come accennato all’inizio, è altamente significativo che l’incontro tra Biden e Putin abbia seguito letteralmente di poche ore gli appuntamenti in Cornovaglia (G7) e a Bruxelles (NATO) che sono serviti in sostanza a posizionare ufficialmente la Cina al primo posto delle minacce che incombono su quel che resta della supremazia globale di Washington.

Lo sganciamento di Mosca da Pechino o lo sforzo per impedire il formarsi di una partnership strategica tra le due potenze non è un obiettivo nuovo per la classe dirigente americana e, recentemente, aveva caratterizzato anche le prime fasi del mandato presidenziale di Trump. Le opinioni all’interno dell’apparato militare e di governo negli USA non sono per nulla concordi su questo punto, ma è chiaro che in determinati ambienti stia prevalendo la tesi dell’impossibilità per Washington di sostenere un confronto, soprattutto se di carattere bellico, contemporaneamente sul fronte cinese e su quello russo.

Enormi preoccupazioni circolano non solo per la rapidità con cui la Cina sta progredendo sul piano tecnologico e militare, ma anche per il livello raggiunto dall’arsenale bellico della Russia, secondo molti analisti per molti versi superiore a quello americano. Inoltre, mentre la Russia costituisce di fatto un “competitor” militare e strategico formidabile, in particolare in alcune aree del globo cruciali come il Medio Oriente, è la Cina a rappresentare una vera e propria minaccia “sistemica” per gli Stati Uniti.

La mossa che l’amministrazione Biden sta provando nei confronti del Cremlino si basa anche sulla presa d’atto delle divisioni che attraversano le stesse élites russe tra i fautori di una partnership sempre più stretta con la Cina e quanti intendono al contrario ricucire i rapporti con l’Occidente. A questa realtà vanno collegate alcune battute di Biden con la stampa dopo il vertice di Ginevra. Il presidente americano, prima di imbarcarsi sul volo che lo avrebbe riportato a Washington, ha ad esempio sottolineato come la Russia sia “in una posizione molto difficile in questo momento”, poiché rischia di essere “schiacciata dalla Cina”. Ancora, Biden ha lasciato intendere che Mosca potrebbe raccogliere benefici in termini “commerciali e di investimenti” se decidesse di “operare all’interno delle norme internazionali”, ovvero assecondando gli interessi americani.

In questo quadro si inserisce allora il confronto di questa settimana tra Biden e Putin e il clima di relativa collaborazione che lo ha apparentemente caratterizzato. Se, poi, gli obiettivi americani possano concretizzarsi è tutto un altro discorso. Anzi, le incognite e gli ostacoli sulla strada della “normalizzazione” della rivalità tra le due potenze nucleari superano le speranze e le certezze. Tanto per cominciare, i segnali di relativa distensione si sono spesso persi nel solito oceano di minacce e intimidazioni rivolte contro la Russia e ciò è accaduto anche nel corso dei summit del G7 e della NATO nel fine settimana.

Al di là inoltre delle reali intenzioni dell’amministrazione Biden, qualsiasi gesto tendente alla de-escalation nei confronti del Cremlino viene accolto con un immediato aumento dei livelli di isteria anti-russa tra gli ambienti di potere USA riconducili alla fazione dei “falchi”. Questa dinamica aveva decretato la fine precoce delle velleità di distensione con Putin dell’ex presidente Trump ed è già emersa subito dopo il faccia a faccia di Ginevra.

La logica dell’imperialismo americano nel contrastare l’erosione della propria posizione internazionale conduce poi comunque allo scontro con una potenza come la Russia e, come dimostra la parabola dei rapporti bilaterali degli ultimi anni, a partire almeno dal “reset” delle relazioni auspicato e mai implementato da Obama, la tendenza appare quella di un costante peggioramento.

Da considerare c’è anche la risposta della Russia. Se, di nuovo, gli Stati Uniti fossero sinceri nel loro impegno diplomatico, è tutt’altro che scontato uno sganciamento russo dalla Cina o, comunque, un riequilibrio delle priorità strategiche russe verso occidente. Nel primo caso, infatti, la partnership sino-russa ha fatto segnare progressi enormi in questi anni e l’integrazione tra i due vicini in diversi ambiti ha raggiunto livelli tali da apparire a tratti irreversibile.

Putin, infine, ricorda perfettamente quali siano stati, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, gli esiti disastrosi dell’apertura del suo paese all’influenza americana, tanto da rendere oggi improbabile un dialogo o un processo di distensione che non garantisca la salvaguardia dell’identità nazionale e dell’autonomia strategica della Russia.

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