L’elezione di Ebrahim Raisi alla carica di presidente dell’Iran è stata accolta in Occidente con l’avvertimento di un imminente peggioramento dei rapporti con la Repubblica Islamica. Raisi viene infatti ricondotto alla fazione dei “conservatori” che prediligono la linea dura nei confronti degli Stati Uniti e dell’Occidente in genere, ma, se è vero che con ogni probabilità non ci saranno sorprese clamorose sul fronte diplomatico, una lettura forse più corretta dell’esito del voto di venerdì scorso lascia piuttosto intravedere un riaggiustamento delle decisioni di politica estera, con l’accordo sul nucleare (JCPOA) non più al centro delle priorità iraniane.

 

Ci sono pochi dubbi sul fatto che le elezioni presidenziali siano state condotte in un clima attentamente controllato dalla leadership della Repubblica Islamica. L’obiettivo era quello di portare alla presidenza il capo della magistratura, coltivato da tempo dagli ambienti vicini al leader supremo, ayatollah Ali Khamenei, e dai Guardiani della Rivoluzione. Questi ultimi o, comunque, i “conservatori” o “principalisti” controllano oggi di fatto tutte le leve del potere in Iran, assieme a buona parte dell’economia. Questo ricompattamento, accentuato dall’elezione di Raisi, serve in sostanza ad affrontare la situazione di crescente crisi in cui il paese mediorientale si ritrova sia a livello interno che internazionale.

Raisi si era ritrovato la strada spianata verso il successo già al primo turno grazie alla decisione del Consiglio dei Guardiani, l’organo che per legge valuta se i candidati alla presidenza abbiano i requisiti necessari. A conferma della tendenza delle ultime elezioni, il Consiglio aveva approvato solo sette candidati su oltre 600. Tra quelli esclusi c’erano alcuni che avevano serie chances di vittoria o che erano in grado di mobilitare il voto “riformista”. Tra gli esclusi eccellenti figuravano l’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad, l’attuale vice-presidente Eshaq Jahangiri e, soprattutto, l’ex speaker del parlamento Ali Larijani.

La bocciatura di quest’ultimo era un segnale chiarissimo delle intenzioni di Khamenei, dal momento che Larijani è un politico con credenziali impeccabili. Larijani era considerato uno dei favoriti ed è stato escluso perché, dopo essersi costruito un’immagine di “moderato”, sarebbe stato probabilmente in grado di intercettare consensi dagli ambienti “conservatori” fino a quelli “riformisti”. Le decisioni pre-elettorali del Consiglio dei Guardiani avevano ad ogni modo prodotto una certa inquietudine ai vertici della Repubblica Islamica per i possibili effetti sulla credibilità delle elezioni. Khamenei era addirittura intervenuto per criticare la mano pesante del Consiglio, anche se non è poi arrivato al punto di riammettere uno o più candidati esclusi, come era sua facoltà e come gli era stato chiesto, tra gli altri, dallo stesso presidente uscente, Hassan Rouhani.

Il ritiro volontario pochi giorni prima del voto di tre dei sette candidati ammessi, di cui due “conservatori”, ha alla fine ristretto ancora di più il campo e favorito il successo di Raisi. L’unico riconducibile alla corrente “riformista”, l’ex numero uno della Banca Centrale iraniana, Abdolnasser Hemmati, si è fermato al terzo posto con appena 2,4 milioni di voti. Raisi ne ha ottenuti invece circa 18 milioni, pari al 62% di quelli espressi, staccando nettamente l’ex comandante dei Guardiani della Rivoluzione, Mohsen Rezai, fermatosi a 3,4 milioni. Anche in questo modo, malgrado le denunce occidentali, il voto in Iran è stato di gran lunga più competitivo e aperto rispetto alla selezione della classe dirigente in molti regimi mediorientali alleati degli USA e dell’Europa.

Più delle schede favorevoli a Rezai sono state quelle bianche (3,7 milioni), a ulteriore testimonianza di un’elezione che ha riscosso pochi entusiasmi tra gli iraniani. Il dato dell’affluenza non ha superato il 50% ed è stato il più basso di tutta la storia della Repubblica Islamica. Questi numeri hanno così permesso a Raisi di imporsi già al primo turno grazie al voto di appena un terzo degli aventi diritto. Lo scoraggiamento degli iraniani è da ricondurre peraltro solo in parte all’assenza di alternative sulle schede elettorali, in particolare di candidati “riformisti”. Infatti, frustrazioni e malcontento per una situazione economica e sanitaria decisamente grave sono rivolti in primo luogo proprio verso questa fazione dell’apparato di potere iraniano, che esprime appunto il governo uscente di Rouhani.

Nelle analisi dei media occidentali delle elezioni o, più in generale, degli equilibri politici in Iran viene quasi sempre proposta una distinzione tra “conservatori” e “riformisti” che risulta fuorviante. Queste categorie non sono assimilabili a quelle che caratterizzano molti paesi in Occidente. I primi, a cui fa riferimento il presidente eletto Raisi, sono infatti “conservatori” riguardo i valori religiosi e la struttura di potere modellata nel periodo post-rivoluzionario, mentre sui temi economici favoriscono un sistema relativamente solido di welfare e l’intervento dello stato. I “riformisti”, oltre ad auspicare una distensione con l’Occidente, propongono invece un modello sostanzialmente liberista e un’integrazione dell’economia iraniana nei circuiti del capitalismo internazionale.

È evidente quindi che, in una situazione nella quale la crisi prodotta dal COVID-19 e dalla reintroduzione delle sanzioni americane, dopo l’uscita unilaterale di Trump dall’accordo sul nucleare (JCPOA) nel 2018, è stata pagata in larga misura dai lavoratori e dalle classi più disagiate, la proposta politica “riformista” risultava già di per sé screditata. Raisi, poi, ha beneficiato di una campagna elettorale basata in parte sull’impegno generico contro la corruzione, problema sentito ancora di più in un momento di crisi e con l’allargarsi delle differenze sociali.

In una prospettiva più ampia, l’ascesa di Ebrahim Raisi viene spesso collegata a quella che dovrebbe essere la sua futura successione a Khamenei. Se questi dovessero essere realmente i piani della Guida Suprema o dei Guardiani della Rivoluzione, è probabile che Raisi sarà come minimo messo alla prova nella carica di presidente. In un ruolo con responsabilità politiche, Raisi è tutto da verificare e già nelle presidenziali del 2016 aveva offerto una performance tutt’altro che entusiasmante.

Uno degli aspetti più discussi sui media in Occidente e non solo è poi il riflesso dell’elezione di Raisi sulle trattative in corso a Vienna per rimettere in piedi l’accordo sul nucleare, firmato originariamente nel 2015. È possibile che la leadership della Repubblica Islamica abbia manovrato per mandare in porto un’intesa con gli USA dopo le presidenziali, in modo da limitare possibili benefici elettorali per i “riformisti”, e per ratificarla prima della fine del mandato di Rouhani ad agosto, così da attribuire al governo di quest’ultimo un eventuale nuovo fallimento.

Resta però il fatto che la ricerca di un accordo, anche se non a tutti i costi, ha la benedizione di Khamenei e la sostanza dei negoziati non dovrebbe cambiare di molto con l’elezione di Raisi. Da verificare saranno ad esempio le complicazioni derivanti dai precedenti di Raisi, per i quali risulta già sulla lista nera di Washington. Trump lo aveva sanzionato nel 2019 per le responsabilità attribuitegli, in quanto pubblico ministero e poi capo della magistratura iraniana, nelle condanne a morte di manifestanti arrestati durante svariate proteste anti-governative a partire dalle contestate elezioni presidenziali del 2009. Inoltre, Raisi fece parte della commissione che nel 1988 ordinò l’esecuzione di migliaia di oppositori, inclusi membri del Partito Comunista e dei Mujaheddin e-Khalq.

Raisi ha comunque espresso il proprio supporto per i negoziati in corso a Vienna, sempre che l’eventuale accordo “faccia l’interesse dell’Iran”, a conferma del via libera dato da Khamenei alle stesse trattative. C’è insomma tutta l’intenzione a Teheran di ristabilire un meccanismo diplomatico con Stati Uniti ed Europa che, in primo luogo, porti allo sblocco delle esportazioni di petrolio iraniano.

Allo stesso tempo, e sarà probabilmente la principale differenza in politica estera tra Rouhani e Raisi, l’eventuale ristabilimento del JCPOA non rappresenterà il fulcro strategico di un paese che, anche a causa delle misure di “massima pressione” trumpiane, negli ultimi anni sta guardando sempre più a oriente. La recente ratifica di un mega-accordo a tutto campo con la Cina ha in questo senso confermato il ruolo centrale dell’Iran nei piani di integrazione euro-asiatica di Pechino e, ancor più, nelle dinamiche multilaterali in atto a livello globale.

Da ciò deriva anche la linea dura che l’amministrazione entrante a Teheran terrà nei confronti dell’Occidente se, dopo l’accordo sul nucleare, verranno sollevate altre questioni scottanti, come continua a lasciare intendere la Casa Bianca. La Repubblica Islamica non intende cioè discutere del proprio programma missilistico convenzionale difensivo né dei rapporti con organizzazioni e governi alleati in Medio Oriente (Siria, Hezbollah, Hamas, milizie sciite in Iraq), ovvero quelle che Washington definisce come “attività maligne”.

Sia sul fronte domestico sia sul piano regionale, in ogni caso, il riassestamento degli equilibri politici dopo il voto di venerdì comporta non pochi rischi per l’establishment della Repubblica Islamica. Il controllo quasi totale del potere da parte degli ambienti “conservatori” o, meglio, delle forze che rappresentano la base di potere di Khamenei comporta l’assunzione totale di responsabilità per i futuri eventuali fallimenti economici e diplomatici, senza più il parafulmine delle impopolari politiche economiche e dell’avventata politica estera della galassia “riformista” iraniana.

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