di Giovanni Gnazzi

Non hanno neanche aspettato la scadenza dell’ultimatum da loro stessi fissata, i Talebani, per assassinare orrendamente l’interprete di Mastrogiacomo fatto prigioniero insieme al giornalista di La Repubblica. Lui no, non era stato liberato. Perché il Presidente Karzai non aveva rispettato appieno l’accordo raggiunto? Perché non c’era nessun accordo ma i Talebani ritenevano di poter avviare una seconda trattativa, specifica, sulla sorte di Adjmal Nasqebandi? Sono domande destinate ancora a rimanere senza risposta; meglio, ad averne diverse, tutte destinate ai diversi obiettivi politici e di comunicazione che i protagonisti sceglieranno. Ma a poca distanza si celebra un altro rito d’ipocrisia politica, che riguarda la sorte del mediatore di Emergency, Rahmatull Hanefi, tenuto anch’egli ostaggio. Solo che i suoi sequestratori sono i Servizi Segreti afgani, cioè niente di credibile sotto il profilo professionale e politico, bensì una banda di assassini guidati e gestiti dalla Cia, che operano agli ordini di Karzai e negli interessi statunitensi, cioè per identici scopi. Dunque, il barbaro assassinio di Adjmal si è consumato sul palco di un teatrino dove ognuno ha giocato la sua parte. Sia chiaro: nessuna equiparazione è possibile tra chi sequestra, sgozza, decapita ed incassa riscatti e chi, dall’altra parte, accetta una trattativa, fatta di obblighi ma anche di limiti, consapevole del ruolo possibile da giocare, ma altrettanto cosciente di quanto non tutto dipenda solo dalla volontà politica di chi tratta. La riservatezza delle trattative impedisce di valutare obiettivamente la forza con la quale Roma ha agito; ma certo la sensazione é che si sarebbe potuto fare di più, molto di più.

Ma nel caso specifico, l’assassinio di Amjial e il sequestro di Hanefi vedono responsabilità pesanti di Karzai. Il denominato “sindaco di Kabul” (e nemmeno di tutta Kabul) è il classico fantoccio statunitense messo a fare bella mostra dell’esportazione di democrazia che sottintenderebbe le guerre coloniali del terzo millennio. Karzai è personaggio ambiguo, che si regge in vita solo grazie alla muraglia militare occidentale nei confronti della quale è egli stesso ostaggio.
La gestione delle trattative per la liberazione di Daniele Mastrogiacomo l’ha dovuta inghiottire come s’inghiotte un rospo. Se non avesse liberato i detenuti Talebani suoi prigionieri, con ciò condannando a morte il giornalista italiano, il governo italiano avrebbe potuto considerare seriamente di fargliela pagare. Avrebbe potuto ritirare il suo contingente da Kabul o, senza tanto clamore, avrebbe potuto – diciamo così – rendere meno sicura la sua protezione. Molte sarebbero state le ipotesi ritorsive a fronte di un diniego suo ad accogliere le esigenze di un paese che impegna un milione e mezzo di Euro al giorno per tenere in piedi il suo fantozziano governo. Karzai sapeva bene tutto questo; era il suo governo la posta in gioco, non certo la sorte di quello italiano. Viene quindi da ridere al sentirlo affermare che le preoccupazioni di Prodi nei colloqui telefonici con lui fosse la stabilità dell’Esecutivo italiano: Prodi avrà molti difetti, ma non certo quello di non saper pesare il livello e l’autorevolezza del suo interlocutore e, Karzai, è privo di tutti e due gli elementi.

Karzai, peraltro, da una eventuale crisi del governo italiano avrebbe avuto solo da perdere, dal momento che il decreto di rifinanziamento delle missioni militari sarebbe decaduto in caso di crisi di governo. Dunque, il sindaco di Kabul aveva lo stesso interesse di Prodi a permettere un esito positivo della vicenda Mastrogiacomo. Perché dunque Karzai afferma il contrario, accusando invece Roma di aver posto le sorti del governo come base per la richiesta del suo intervento? Perché ha dovuto districarsi tra la volontà italiana e quella – opposta - statunitense. Gli Usa non hanno avuto modo di opporsi concretamente al rilascio di Mastrogiacomo: la gestione delle trattative ed i soggetti che l’hanno gestite hanno avuto successo sia per l’abilità negoziale, sia per aver impedito il coinvolgimento di servizi e uffici che, direttamente o indirettamente, risultano troppo sensibili ai dettami statunitensi.

Del resto, a liberazione avvenuta, le pressioni statunitensi, orchestrate dal “secondo” di Condoleeza Rice, John Dimitri Negroponte, hanno avuto il loro eco cacofonico nella destra italiana. C’è da presumere che l’iniziativa dell’ambasciatore-torturatore (definito per i suoi trascorsi in Centroamerica “il boia di Tegucigalpa”) sia stata presa al di fuori e contro il volere della stessa Rice, che nei colloqui di New York con D’Alema, nelle ore immediatamente successive alla liberazione di Mastrogiacomo, non rilasciò nessuna critica contro l’operato del governo italiano. La differenziazione tra la Rice e Negroponte da quindi adito a conferme circa le divesità di linea all’intero del Dipartimento di Stato Usa, ma questa è un’altra storia.
Oggi Karzai, per bilanciare in senso statunitense il suo operato, non solo attacca Prodi, ma detiene contro ogni logica il dirigente di Emergency che, come ha rivelato Gino Strada, lo scorso anno portò fisicamente i due milioni di dollari ai Talebani che servirono per liberare Torsello e poi gestì la trattativa che portò alla liberazione di Mastrogiacomo.

Può darsi che il governo italiano non abbia posto la liberazione dell’interprete sullo stesso piano di quella di Mastrogiacomo. Avrebbe dovuto farlo, pur non trattandosi di un cittadino italiano. Ma certo è che il suo destino è stato deciso da Karzai, che ha deciso di lasciarlo morire e di arrestare anche il dirigente di Emergency. Karzai ha voluto dare agli Stati Uniti il segnale che volevano: nessuna trattativa (salvo quelle che gestiscono loro, come dichiarato dal loro ex-ambasciatore in Iraq)e arresto di chiunque la porti avanti in autonomia.

Karzai sta quindi giocando la sua partita per tentare di rimanere al governo e in vita. Lo sta facendo appoggiandosi a Usa e Gran Bretagna che di partita ne giocano invece un’altra: quella relativa alla linea politica ed al comando della missione, destinata a stabilire il primato politico nelle scelte sul campo. Due sono le motivazioni e gli assetti militari dei diversi contingenti, ma una è la linea che dovrà prevalere. Karzai ha capito e si allinea, anche se questo dovesse alterare il suo ruolo. Ora, a maggior ragione dopo aver constatato le reali intenzioni del “sindaco di Kabul”, c’è da augurarsi che Roma proponga con tutta la forza necessaria la richiesta di liberazione del dirigente di Emergency. A qualunque costo, va strappato dalle mani degli aguzzini dei servizi segreti afgani e dei loro padroni e padrini. Ce ne sono molti di motivi per lasciare l’Afghanistan e nessuno per rimanervi. Il mantenimento al potere di Karzai riunisce, come in un puzzle fetente, entrambi gli aspetti. Prima ce ne andiamo, meglio é.

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