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Due sono le principali accuse che la troika economica e le agenzie di rating (entrambe espressione degli interessi dell'oligarchia finanziaria internazionale) rivolgono alla proposta di legge di stabilità del governo italiano.
La prima ha a che fare con la scelta di portare al 2,4% il rapporto deficit/Pil, ben sopra al limite (1,6%) ufficiosamente pattuito dalle precedenti leggi di stabilità dei governi Renzi-Gentiloni (che, a fine 2017, è arrivato al 2,3% nel silenzio generale) ma ben al di sotto del limite ufficiale sancito dagli accordi del 1997 che è pari al 3%.
La seconda è che tale obiettivo, comunque, difficilmente potrà essere ottenuto perché le stime di crescita del Pil effettuate dal governo, a seguito della manovra economica (+0,5%), sono considerate sovrastimate. In questa breve nota, ci limitiamo per il momento a discutere del primo punto.
La situazione debitoria europea
La fragilità economica di un paese è certamente legata anche al livello del suo indebitamento. Ma correttezza vuole che si faccia riferimento al debito complessivo di tutti gli agenti economici che operano nel sistema economico (non solo lo Stato, ma anche le famiglie, le imprese e le banche). Se prendiamo in esame il debito complessivo in rapporto al Pil, abbiamo qualche sorpresa.
Secondo una recente survey del McKinsey Global Institute, sulla base dei dati della Bank for International Settlements (Banca dei regolamenti internazionali) riferiti al 2017, il paese più indebitato al mondo risulta essere il Lussemburgo per un ammontare pari al 434% del Pil, seguito da Hong Kong (396%), terzo il Giappone (373%). Con riferimento alle nazioni europee, quelle più indebitate sono l'Irlanda e il Belgio (345%), seguite da Portogallo (322%), Francia (304%), Olanda e Grecia (entrambe al 294%), Norvegia, 287%, Gran Bretagna (281%), Svezia e Spagna (275%). L'Italia (265%) si colloca nelle retrovie, con un valore di poco superiore alla Danimarca, Finlandia, Svizzera, Austria e Germania.
Se disaggreghiamo tale dato, l'Italia ha il 151% di debito pubblico (seconda in Europa - dopo la Grecia, e terza al mondo, con il Giappone che detiene il primato di paese con lo Stato più indebitato: 214%). Ma si trova negli ultimi posti in classifica per debito delle famiglie (41%, contro il 127% della Svizzera, il 117% della Danimarca, il 107% dell'Olanda, il 102% della Norvegia, l'87% della Gran Bretagna). Meglio dell'Italia è solo la Polonia (36%). Con riferimento al debito delle imprese, anche in questo caso la situazione italiana è tra le più virtuose. Lussemburgo, Irlanda, Belgio, Norvegia, Svezia, Francia, Portogallo, Spagna presentano valori doppi rispetto all'Italia e solo Grecia e Germania si trovano in una situazione migliore (seppur di poco).
La solvibilità complessiva dell'Italia non può quindi essere messa in discussione, anche tenendo conto che la quota di debito pubblico detenuta da operatori economici italiani è oggi salita al 68,7%, grazie soprattutto all'incremento dal 5% al 16% effettuata dalla Banca d'Italia grazie al Quantitative Easing della Bce. Occorre notare che il 26% del debito pubblico italiano è, inoltre, detenuto da banche prevalentemente italiane e il 18% è invece detenuto da fondi finanziari e assicurativi, prevalentemente stranieri, quelli più interessati a avviare attività speculative. I piccoli risparmiatori ne detengono solo il 5%.
Per completezza d'analisi, alla situazione debitoria nazionale occorre aggiungere l'eventuale indebitamento estero. Come è noto, l'Italia è il secondo paese, dopo la Germania, a vantare il surplus della bilancia commerciale più elevato d'Europa. I dati relativi a fine 2017 (Fonte: Eurostat), ci dicono che l'avanzo commerciale italiano ha raggiunto la cifra di 47,5 miliardi (pari al 2,8% del Pil), derivante da un surplus di 8,3 miliardi con i paesi della UE e di 39,2 con quelli extra-UE.
Di fatto il surplus dei conti con l'estero sarebbe in grado di ripagare più che abbondantemente il deficit interno. La Germania ha maturato un surplus commerciale di 249 miliardi pari al 7,6% del Pil. Ricordiamo che all'interno del patto di stabilità europeo, oltre ai vincoli sul rapporto deficit/pil, occorre prendere in considerazione il limite massimo di avanzo commerciale di un paese membro, che non può superare il 6%. Di fatto, l'unico paese che del corso del 2017 ha compiuto un'infrazione al Patto di Stabilità è stata la Germania ed è prevedibile che tale limite del 6% verrà superato anche nel corso del 2018. E' infatti da più di 5 anni che la Germania supera tale limite. Ma nessun commissario europeo sembra accorgersene.
Di converso, la Francia presenta un deficit commerciale di circa 80 miliardi e la Gran Bretagna addirittura di 176,2 miliardi.
Di fronte a questo quadro, l'accanimento contro il solo debito pubblico per contestare le scelte di politica economica non ha una ragione strettamente economica ma esclusivamente politica e ideologica. Si tratta di impedire che un paese membro possa adottare una politica espansiva basata sul deficit spending in grado, potenzialmente, di evitare lo smantellamento del welfare e la finanziarizzazione privata dei servizi sociali, a partire dalla sanità e dall'istruzione (visto che la previdenza è stata già di fatto finanziarizzata).
Ciò che è in gioco non è l'autonomia economica dell'Italia, come la retorica nazional-sovranista vorrebbe farci credere. Se anche ritornassero la lira o un'Europa di singoli stati sovrani sul piano monetario, la configurazione geopolitica internazionale basata sul confronto tra l'asse boreale Trump-Putin (che vedrebbero con favore la scomparsa dell'Europa) e l'asse australe Cina-India-Sud Africa-Brasile, renderebbero i singoli paesi europei ancor più deboli e in balia delle oligarchie economico-finanziarie.
A chi conviene il debito italiano?
Forse non tutti sanno che a partire dal 1992, con l'unica eccezione del 2009, il saldo primario del bilancio dello Stato (ovvero la differenza tra le entrate e le uscite complessive, al netto della spesa per interesse) è sempre stato abbondantemente positivo. In questi anni, dal 1992 al 2017, lo Stato ha prodotto un risparmio pari a 795 miliardi. Negli ultimi 25 anni, l'ammontare delle spese per interessi ha, invece, raggiunto una cifra pari a 2094 miliardi. Di conseguenza il debito pubblico italiano è cresciuto di 1.299 miliardi.
Appare quindi evidente che la principale causa dell'aumento del debito pubblico italiano dipende dalla spesa per interessi, la cui dinamica negli ultimi anni è stata sempre più condizionata dalla speculazione finanziaria. Approfondiamo questo aspetto, utilizzando i dati del rapporto del Comitato per l'abolizione dei debiti illegittimi (CADTM) che verrà presentato alla stampa il prossimo 27 ottobre 2018, a Roma.
Tre sono state le fasi in cui l'Italia è stato oggetto di attacchi speculativi.
Il primo è il biennio 1992-93 con la crisi valutaria della lira, che ha portato, sul piano sociale, all'abolizione della scala mobile e alla draconiana manovra finanziaria del governo Amato. Nonostante questi interventi (aumento della pressione fiscali in senso non progressivo, smantellamento di parte del servizio pubblico che porterà alla riforma previdenziale del 1996 e alla privatizzazione dell'acqua, dell'energia, del trasporto e delle comunicazioni, riduzione del costo del lavoro e inizio della sua fase di precarizzazione), il rapporto debito pubblico è passato dal 101,6% del 1991 al 111,3% del 1993 e al 127,3% del 1994. Come ricordato è proprio nel 1992 che si realizzerà per la prima volta dagli anni Settanta un avanzo primario positivo che nell'arco del triennio ammonterà a 56,52 miliardi di euro. Di contro, la spesa per interessi ammontò a 303,27 miliardi (con un incremento del 62,7% rispetto al triennio precedente).
Il secondo attacco coincide con l'avvio della crisi dei subprime del 2007-8: il rapporto deficit/Pil passa dal 99,34% del 2007 al 112,2% del 2009, l'unico anno in cui si registra anche un disavanzo primario (al netto degli interessi), con il IV governo Berlusconi. La spesa per interessi risulta pari nel triennio a 229,2 miliardi di euro.
Occorre ricordare che l'entrata nell'Euro aveva, invece, prodotto una diminuzione del rapporto debito/Pil dal 109,1% del 2000 al 105,9% del 2002, grazie soprattutto al calo dei tassi d'interesse.
Pochi anni dopo, arriva il terzo attacco, quello forse più pesante, con lo spread che nel 2011 arriva a quota 575. La crisi aveva portato alla caduta del governo Berlusconi e all'arrivo del governo Monti. L'attacco si fermò quando la Deutsche Bank, che aveva iniziato a febbraio del 2011 la vendita della quota di titoli di Stato in suo possesso per speculare sui derivati italiani, decise a novembre di quell'anno di ricominciare ad acquistarli di nuovo, dopo aver capitalizzato ingenti guadagni.
Nel 2011 e 2012, l'esborso dello Stato per la spese in interessi arriva a toccare i 160 miliardi.
Se sommiamo questi episodi, ricaviamo che la speculazione finanziaria è costata allo Stato italiano (e quindi a noi) la bellezza di 467,3 miliardi, ovvero il 20,6% dell'intero debito pubblico del 2017. E' una cifra che è andata a ingrassare la pancia delle multinazionali della finanza e delle banche e solo in minima parte i risparmiatori italiani, che detengono, come già abbiamo ricordato, solo il 5% del debito complessivo. A tale rendita occorre poi aggiungere le plusvalenze maturate sulla dinamica dei derivati sui titoli di stato, che, nel caso del 2011, hanno consentito guadagni di oltre il 500% in pochi mesi.
Analizziamo ora le entrate fiscali. Esse sono composte da tre grandi voci: le imposte dirette (pari nel 2016 al 35%), le imposte indirette (34%), i contributi sociali (31%). Gli introiti delle imposte dirette derivano nel 2017 per il 58,1% dai redditi da lavoro (salari e pensioni), per il 21,7% dai redditi di impresa (partecipazioni e utili), per il 7,3% dai redditi da capitali (interessi e dividendi), per il 2,6% da redditi fondiari (affitto) e per il 7% da redditi patrimoniali. Ciascuno di questi cespiti è soggetto a una tassazione separata. I redditi da lavori sono soggetti alla progressività delle aliquote. I redditi da imprese solo in parte. Ad esempio le società di capitali pagano un'Ires pari all'aliquota unica del 24%. Lo stesso vale per gli affitti (imposta unica del 21%), per gli interessi sui depositi bancari (26%) e sui titoli di stato (12,5%).
Ne consegue che chi gode di un reddito derivante non solo dal lavoro ma anche da altre attività (affitto, interessi, ecc,) vede ridursi la propria progressività in un contesto di elevati redditi cumulati, con un trattamento a lui/lei più favorevole.
Inoltre negli ultimi anni, le varie riforme fiscali hanno di gran lunga ridotto non solo la progressività delle aliquote sull'Irpef ma anche le aliquote uniche di alcuni redditi. E' il caso dei redditi di impresa: fino al 1995 quelli realizzati da società di capitali erano tassati al 37%. Poi è cominciato un lento declino fino a raggiungere il 24% nel 2017 con il governo Renzi.
Quando fu introdotta l'Irpef come unica tassa sui redditi di lavoro e di persone nel 1974 (riforma Visentini), gli scaglioni di aliquote erano più di 20, con valori che partivano dal 10% (per i redditi più bassi) sino ad un massimo del 72% (per i redditi superiori ai 300.000 euro l'anno). A partire dalla prima riforma del 1983 sino all'ultima del 2007, tale ventaglio di aliquote è stato drasticamente ridotto sino alle 5 attuali: 23% per i redditi sino a 15 mila euro, 27% tra i 15 mila e i 28 mila, 38% tra i 28 mila e i 55 mila, 41% dai 55 mila ai 75 mila e 43% oltre i 75 mila. Non solo sono state diminuite le aliquote sui redditi più alti e aumentate quelle sui redditi più bassi ma anche la curva della progressività è diventata sempre più elastica, concentrandosi prevalentemente sui redditi medio-bassi, quelli dello scaglione di imponibili lordo (il netto è circa un terzo inferiore) tra i 28 mila e i 55 mila.
Ne è conseguito che: "In virtù delle riforme fiscali operate dal 1983 al 2007, i super ricchi, quelli con redditi superiori a 600.000 euro, nel solo 2016 hanno goduto di un regalo fiscale pari a 1 miliardo di euro. Considerato che il loro numero non va oltre le 10.000 persone, ognuno di loro ha potuto accrescere il proprio patrimonio di 100.000 euro".
Se si considera il mancato gettito dovuto alla ridotta progressività delle riforme fiscali e al mancato cumulo, "otteniamo una perdita per lo Stato, nel [solo] 2116, di 8,3 miliardi di euro, pari al 4,5% del gettito Irpef".
Applicando lo stesso calcolo agli ultimi 34 anni (dal 1974 ad oggi), il mancato gettito complessivo ammonta a 146 miliardi. Tale ammanco di entrate è stato colmato dall'emissione di titoli di Stato che, in virtù degli interessi composti, hanno prodotto un maggior debito pari a 295 miliardi, il 13% di tutto il debito accumulato. Un favore alle classi più ricche che è stato assai costoso per tutta la collettività!
Per una maggior completezza di analisi, dobbiamo anche aggiungere il fenomeno dell'evasione e dell'elusione fiscale, che, secondo le stime pubblicate nel maggio 2017, è stata per il 2014 di 110 miliardi, di cui 11 evasi sotto forma di contributi sociali, 36 come IVA e 63 come imposte dirette.
Quali conclusioni?
La veloce e incompleta panoramica ci porta ad alcune preliminari conclusioni:
1. L'Italia non si trova in una situazione di rischio di insolvenza, come gli allarmismi del gotha finanziario vogliono far credere. La campagna mediatica, orchestrata anche da alcuni siti di informazione compiacenti (a destra come a sinistra), ha come scopo principale attivare campagne speculative, assai lucrose per chi detiene il controllo dei flussi finanziari;
2. Il debito pubblico italiano è stato causato dall'incremento della spesa per interessi (a seguito delle campagne speculative) e da riforme fiscali che hanno favorito un poderoso trasferimento di risorse dalle fasce più povere della popolazioni a quelle più ricche. E' quindi del tutto falsa la narrazione dominante che associa la crescita del debito pubblico all'aumento della spesa pubblica, soprattutto nel periodo degli anni '80 del secolo scorso, quando passò dal 60% a oltre il 120%. Eppure, come correttamente scrive Marco Bersani, "i dati ufficiali sulla spesa pubblica di quel decennio raccontano un'altra verità: infatti, al netto della spesa per interessi, la spesa pubblica italiana è passata dal 42,1% del Pil nel 1984 al 42,9% nel 1994, mentre, nello stesso periodo, la media europea vedeva un aumento dal 45,5% al 46,6% e quella dell'eurozona dal 46,7% al 47,7%. Ovvero, sia in percentuale assoluta, sia in percentuale di aumento relativo, la spesa pubblica italiana si è costantemente posizionata a livelli inferiori rispetto al resto dell'Ue e dell'eurozona".
3. Il debito pubblico è così un"business": favorisce la rendita finanziaria e coloro che sono già i più ricchi.
4. L'attuale proposta di manovra finanziaria con l'enfasi sulla "flat tax" non fa altro che contribuire ad alimentare tale business. Solo il ripristino di una tassazione unica per tutti i cespiti di reddito e il ritorno ad una più elevata progressività delle imposte possono contribuire non solo ad una maggiore equità fiscale ma anche a ridurre il debito pubblico.
fonte: www.effimera.org
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- Scritto da Giorgio Trucchi
Dal 17 settembre al 19 ottobre si svolgerà in Honduras il dibattito orale e pubblico contro otto persone accusate di aver partecipato nella preparazione ed esecuzione dell’omicidio della dirigente indigena lenca Berta Cáceres. Fra gli imputati ci sono ex-militari e militari attivi come anche dirigenti dell’impresa Desarrollos Energéticos SA (Desa), che è titolare della concessione e del progetto idroelettrico Agua Zarca.
Sergio Rodríguez, direttore dell’area sociale, ambientale e di comunicazione di Desa, Mariano Díaz Chávez, maggiore dell’esercito e veterano delle forze speciali, Douglas Bustillo, luogotenente in ritiro dell’esercito ed ex capo di sicurezza di Desa ed Henry Hernández Rodríguez, sergente e tiratore scelto delle forze speciali, fanno parte di questo primo blocco. Roberto David Castillo Mejia, ex direttore generale di Desa, è in attesa del rinvio a giudizio.
Da anni il Copinh [1] - organizzazione della quale Cáceres fu coordinatrice - lotta con impegno per frenare il tentativo da parte di Desa e dell’impresa di stato cinese Sinohydro di realizzare il progetto. L’opera non è mai stata socializzata con le comunità della zona e genererebbe gravi impatti ambientali, in modo particolare al Rio Gualcarque, sacro per il popolo Lenca.
Questo lungo conflitto ha generato divisioni e scontri. La zona di Rio Blanco, Intibucà, è stata ripetutamente militarizzata e membri delle comunità locali lenca sono stati perseguitati, repressi, hanno subito attentati, la loro lotta è stata oggetto di criminalizzazione e persecuzione giudiziale. Gli attacchi contro le attiviste e attivisti del Copinh lasciano un saldo di varie persone ferite o assassinate. È in questo contesto di difesa dei territori e delle risorse comuni, di persecuzione e repressione, che Berta Cáceres fu assassinata la notte fra il 2 e 3 marzo del 2016 da un commando armato.
Mancano gli autori intellettuali
Sia il Copinh che i familiari della dirigente indigena assassinata assicurano che tuttavia lo Stato non ha voluto indagare sui mandanti del crimine. Bertha Zúniga, attuale coordinatrice del Copinh e figlia di Berta Cáceres, in un’intervista rilasciata a Radio Mundo Real [2] ha parlato dell’importanza del processo: “Non è il processo che vorremmo perché mancano gli autori intellettuali del crimine. Piuttosto è un gesto che il governo vuol fare di fronte alla comunità internazionale che sta esigendo giustizia. Nonostante questo sarà un processo storico che darà un segnale importante contro l’ingiustizia. Vogliamo - ha continuato Zúniga - che questo processo non sia solo “Giustizia per Berta”, ma contribuisca a produrre cambi strutturali nel paese. Che serva a denunciare e trasformare situazioni di fondo che accadono in Honduras, come assassinii, persecuzioni e repressione che rimangono nell’impunità” ha manifestato.
Purtroppo non sembrano essere questi i progetti delle autorità honduregne. Anzi, negli ultimi mesi si è scatenata un’offensiva mediatica tendente a denigrare tanto la figura di Berta Cáceres, come il lavoro investigativo indipendente. Allo stesso modo non si può considerare casuale che questo attacco si stia verificando ad un mese dall’inizio del processo contro gli accusati dell’omicidio della leader indigena.
Come distorcere la realtà
Desa, tramite il suo ufficio di difesa legale Amsterdam & Partners LLP, ha contrattato il penalista canadese Brian Greenspan per elaborare una relazione che discredita il lavoro investigativo [3] - sull’omicidio di Cáceres - realizzato dal GAIPE [4] (Grupo Asesor Internacional de Personas Expertas). L’obiettivo sarebbe di mettere in dubbio il possibile legame fra l’impresa e il brutale assassinio. L’indagine del gruppo di esperti internazionali ha concluso che ci sono prove inconfutabili del coinvolgimento di alti dirigenti e impiegati di Desa, assieme ad agenti statali che sono coinvolti nella pianificazione, esecuzione e copertura dell’omicidio.
Nonostante le pesanti accuse, e la decisione delle banche europee FMO (olandese) e FinnFund (finlandese) di ritirarsi dal progetto Agua Zarca, Desa ha preferito non chiuderlo definitivamente, preferendo solo sospenderlo temporaneamente. Purtroppo la Banca Centroamericana di Integrazione Economica (BCIE) mantiene il suo finanziamento di 24 milioni di dollari.
"Desa mantiene l’illegale concessione di 50 anni sul fiume Gualcarque, il che significa che il progetto non si chiude, al contrario è sospeso aspettando che passi il tempo per riallacciare le operazioni. Ratifichiamo la nostra lotta permanente per l’espulsione definitiva del progetto Agua Zarca e denunciamo l’impresa criminale Desa, che ha le mani sporche del sangue delle nostre compagne e i nostri compagni assassinati”, ha spiegato il Copinh in un comunicato [5].
La decisione di non chiudere il progetto idroelettrico e di ingaggiare un esperto penalista internazionale per delegittimare il lavoro del GAIPE sarebbe parte di una strategia di attacco molto più ampio, “che include pseudobiografie di Berta Cáceres e testi che hanno il proposito di distorcere i fatti e creare nuove e dubbie piste d’investigazione”. Non si è nemmeno fermato “il lavoro di manipolazione e attacco contro le comunità di Rio Blanco” e il ”rafforzamento di strutture comunitarie parallele” per dividere la popolazione e mantenere vivo il conflitto, segnala il Copinh nella nota. L’organizzazione indigena lenca allerta anche sulla reiterata mancata consegna da parte del Ministero Pubblico delle informazioni sul caso ai rappresentanti legali della famiglia di Cáceres. In 35 occasioni i funzionari del PM hanno negato la consegna di queste informazioni.
“La mancanza di accesso alle informazioni si usa per nascondere la verità, per beneficiare i colpevoli della morte della nostra compagna Berta. Si sta usando per manipolare la realtà ed evitare che i massimi responsabili della sua morte affrontino la giustizia”, ha denunciato il Copinh la settimana scorsa.
Le informazioni che il Pm continua a nascondere sono quelle ottenute nelle perquisizioni all’impresa Desa, dove si evidenziano le azioni dell’impresa contro Cáceres e il Copinh. Si nascondono anche le informazioni delle perquisizioni realizzate alle persone coinvolte nell’omicidio, cosa che potrebbe rivelare possibili vincoli con i mandanti intellettuali del crimine.
Il 4 settembre scorso si è conclusa l’udienza di comparizione delle parti e trattazione della causa. Secondo il Copinh, la decisione della Corte di non ammettere alcune prove, tra cui la comparizione come testimoni di membri della famiglia Atala Zablah, dirigenti di Desarrollos Energético SA (Desa), ostacolerebbe la ricerca di un legame tra l'omicidio, gli esecutori materiali e dirigenti della compagnia come autori intellettuali del crimine. A pochi giorni dall’inizio del processo, il Copinh ha lanciato la campagna #DesaCulpable e ha presentato il sito web Berta Cáceres, che permetterà l’accesso a tutte le informazioni, notizie e analisi sul processo.
Attività che uccidono
Lo stesso anno che assassinarono Berta Cáceres, l’Honduras è stato segnalato dall’organizzazione britannica Global Witness [6] come il paese più pericoloso del mondo per le persone difenditrici della terra e dei beni comuni. Due anni dopo, il nuovo rapporto dell’organizzazione britannica “A che prezzo?” [7] segnala che nel 2017 furono assassinate 207 persone per difendere la terra e i beni comuni. Si tratta del numero più alto mai registrato. Cifre raggelanti che, inoltre omettono una considerevole parte nascosta dovuta alla difficoltà di individuare, identificare e denunciare assassinii.
L’agroindustria risulta essere il settore di commercio più legato agli attacchi, seguito dal settore minerario e dall’industria estrattiva. C’è anche stato un aumento considerevole degli assassinii collettivi (massacri). Quasi un quarto delle persone assassinate nel 2017 si opponevano a progetti agricoli. Ciò rappresenta un aumento del 50% rispetto all’anno precedente.
L’America Latina è la regione più pericolosa. Il 60 % delle morti si sono verificate in questa regione. Brasile (57), Filippine (48), Colombia (24), Messico (15) e Congo (13) sono in testa alla tragica lista di omicidi. Il Messico è il paese che ha registrato il maggiore aumento del numero di vittime mortali nel 2016. Allo stesso modo, centinaia di persone nel mondo sono state attaccate, perseguitate, minacciate, stigmatizzate, criminalizzate e giudicate per avere il coraggio di parlare apertamente e denunciare gli attacchi contro le proprie comunità, il proprio modo di vivere e il proprio ambiente.
Nel caso dell’Honduras, il rapporto di Global Witness, evidenzia una diminuzione degli omicidi. “Cinque persone sono state uccise nel 2017, in confronto ai 14 omicidii del 2016. Tuttavia, la repressione contro chi difende la terra e i beni comuni è peggiorata”, si legge nel rapporto. La Missione di appoggio contro la corruzione e l’impunità in Honduras (Maccih) dell’Organizzazione degli Stati Americani (Osa), sta investigando relazioni sospette fra membri del partito di governo (Partido Nacional) e imprese che hanno vinto i bandi per sviluppare progetti idroelettrici, incluso Agua Zarca. Il rapporto ha anche segnalato che la Red nacional de defensoras de derechos humanos de Honduras ha documentato 1.232 attacchi contro persone che difendono i diritti umani [8] in questo paese tra il 2016 e il 2017, un aumento significativo in confronto con anni precedenti [9] ha avvertito Global Witness.
Affari irresponsabili
Secondo l’organizzazione britannica, i governi e le imprese hanno fallito nell’agire con responsabilità, eticamente, o almeno, in accordo con la legge, il che li converte in un fattore generatore della lunga ripetizione di crimini contro attiviste e attivisti nello scorso anno. “Quando boschi tropicali sono rasi al suolo per seminare monocolture, quando si sfruttano le terre per le miniere, quando si accaparra la terra, si mette in rischio il futuro delle comunità vicine. Si tratta di commerci e investimenti irresponsabili, usati per soddisfare la domanda dei consumatori e massimizzare i benefici che, assieme ai governi corrotti o negligenti, fanno di tutto perché questo sia possibile”.
Governi complici
La collusione o inerzia dei governi hanno permesso l’impunità sistematica nei delitti commessi contro difenditrici o difensori. L’impunità incoraggia ulteriori violazioni dei diritti umani. “I governi sono di solito complici degli attacchi. Uno dei fatti più rilevanti delineati in questo rapporto è la quantità di omicidii commessi dalle forze di sicurezza del governo, su richiesta dei loro superiori politici e alleati con l’industria” segnala il rapporto.
Global Witness ha potuto collegare alle forze di sicurezza del governo 53 degli assassinii, e alle forze non statali almeno altri 90 casi. “Man mano che la quantità di assassinii aumenta, alcuni governi, imprese e organizzazioni intergovernative hanno cominciato a riconoscere la gravità della situazione. Però il loro discorso e le loro promesse non si sono ancora tradotte in politiche convincenti e in cambi concreti”. Di fronte a questa situazione, Global Witness ha chiesto ai differenti attori di affrontare le cause fondamentali di violenza contro persone difenditrici, e fra le altre, la mancanza di consenso libero, previo e informato da parte delle comunità.
Ha anche richiesto appoggio e protezione par difenditrici e difensori a rischio, come anche di garantire le indagini, cattura e punizione per i responsabili degli attacchi. “Reclamiamo che le potenti istituzioni e organizzazioni che minacciano gli interessi delle persone difenditrici, delle loro comunità e del pianeta, che riconoscano le proprie responsabilità e che usino il loro potere per essere una forza per il bene. I governi e le imprese detengo il potere (finanziario, legislativo ed esecutivo, così come il dovere legale) per fare una grande differenza”, conclude il rapporto “A che prezzo?”.
Fonte: www.alainet.org
Note
[1] Consejo Cívico de Organizaciones Populares e Indígenas de Honduras
[2] https://rmr.fm/noticias/mil-voces-343/
[3] https://www.alainet.org/es/articulo/188982
[4] Grupo Asesor Internacional de Personas Expertas
[5] https://copinh.org/2018/07/la-empresa-asesina-desa-mantiene-la-concesion-y-sigue-operando-el-proyecto-agua-zarca/
[6] https://www.globalwitness.org/en/
[7] https://www.globalwitness.org/documents/19393/Defenders_report_spanish-7.pdf
[8] http://www.rel-uita.org/honduras/crecen-ataques-defensoras-derechos-humanos/
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La prossima settimana vedremo i leader di tutta l'Africa riunirsi a Pechino per il Forum sulla cooperazione Cina-Africa. Il summit triennale, dal tema "Cina e Africa: verso una comunità ancora più forte con un futuro condiviso attraverso la cooperazione win-win”, porterà ancora una volta la cooperazione Cina-Africa all’attenzione dell'agenda internazionale.
Anche prima che il vertice si riunisse, i media occidentali hanno iniziato a criticare le relazioni tra Cina e Africa. Un editoriale pubblicato dal Financial Times ha sostenuto che l'impegno della Cina in Africa e il suo modello economico guidato dall'infrastruttura sta "fallendo" nel continente.
Nondimeno, un tale tono non riesce ad apprezzare il ruolo in evoluzione della Cina in Africa.
Nei primi anni di impegno della Cina in Africa, Pechino ha enfatizzato lo scambio di materie prime per prodotti fabbricati in Cina. Questo è stato ora completato da aiuti cinesi e progetti di investimento che rispondono alle richieste di infrastrutture del continente. A partire da ora, la Cina è il principale finanziatore di progetti infrastrutturali in Africa, con una media di circa 11,5 miliardi di dollari di investimenti annuali nel quadriennio 2012-16.
Gli aiuti cinesi e il finanziamento allo sviluppo colmano il vuoto lasciato dai paesi occidentali che cercavano di utilizzare gli aiuti al fine di influenzare la politica interna dei paesi africani e ricavarne vantaggi politici. A differenza dell'Occidente, quello che la Cina ha fatto in Africa non è un sostegno solo a parole. Nell'ultimo forum del 2015 a Johannesburg, in Sudafrica, il presidente cinese Xi Jinping ha promesso 60 miliardi di dollari per lo sviluppo africano nei prossimi tre anni.
La Cina spera di aiutare l'Africa a raggiungere uno sviluppo migliore agevolando la sua industrializzazione e le sue infrastrutture, creando posti di lavoro in loco e mobilitando la sua forza lavoro. La Cina non vuole che i paesi africani copino il suo modello. Piuttosto, offrendo le sue esperienze di sviluppo, la Cina spera che questi paesi possano esplorare il proprio percorso di sviluppo e diventare un'altra giovane locomotiva economica globale e fabbrica mondiale.
Nel frattempo, l’obiettivo dei progetti cinesi in Africa non è altruista. Oltre a rafforzare i legami con il continente, la Cina è anche alla ricerca di nuovi mercati di esportazione per il suo lavoro, le sue merci e per la standardizzazione delle sue tecnologie.
Da questa prospettiva, l'impegno della Cina con l'Africa si adatta proprio al concetto di cooperazione win-win su cui la Cina ha lavorato: la Cina la definisce "win-win" quando i paesi lavorano insieme per il beneficio comune dell'umanità. Questo è anche il tema del prossimo forum.
Non spetta agli stranieri decidere come l'Africa può svilupparsi. Ciò di cui ha bisogno è il supporto necessario ad agevolare lo sviluppo. Con le sue dimensioni e il vantaggio demografico, l'Africa dovrebbe beneficiare della globalizzazione. L'Occidente in passato ha preso l'Africa come luogo da saccheggiare senza alcuna considerazione delle sue infrastrutture. Ora non è in grado di garantire ciò che la Cina sta fornendo. L'Occidente non ha giustificazioni per criticare il modello cinese in Africa.
fonte: Global Times
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- Scritto da Alberto Negri
Si parte per vendere e si finisce per comprare. Sembrava che il ministro dell’Economia Giovanni Tria fosse andato in Cina per vendere i titoli del debito italiano e invece è venuto da Pechino l’annuncio che la Banca d’Italia inizierà a diversificare le proprie riserve valutarie includendo il renminbi e quindi titoli di stato cinesi. Non è una novità che dai cinesi compriamo quasi tutto: la Cina è tornata a essere una fabbrica-mondo come lo fu fino alla vigilia della rivoluzione industriale europea.
Importiamo dalla Cina molto di più di quanto esportiamo: quasi il doppio. È il terzo Paese del mondo per valore delle merci che l’Italia importa dall’estero, dopo Germania e Francia. Dalla Cina arrivano prodotti per un valore quasi doppio rispetto, per esempio, a quelli che arrivano dagli Stati Uniti (28,4 miliardi di euro contro 15 miliardi lo scorso anno, secondo i dati del ministero per lo Sviluppo economico).
Per ogni euro che spendiamo in merci prodotte nel loro Paese, i cinesi spendono meno di 50 centesimi in prodotti italiani. Quindi la nostra bilancia commerciale (che a livello complessivo è in attivo) rispetto alla Cina è negativa: alle aziende cinesi sono rimasti 15 miliardi di euro di differenza lo scorso anno, spesi dagli italiani.
La Cina è un destino, non solo segnato dalla storia ma dal presente e dal futuro. È la seconda economia mondiale dopo gli Stati Uniti, anche se il suo prodotto interno lordo è poco più di sei volte quello dell’Italia, secondo i dati della Banca mondiale: in dollari la produzione cinese vale 12,2 milioni di miliardi e quella dell’Italia 1,9 milioni di miliardi.
La Cina però cresce con tassi di sviluppo molto superiori al nostro e quindi la distanza si sta allargando a dismisura. Basti pensare che vent’anni fa, nel 1998, il Pil dell’Italia era del 20% più alto di quello cinese. Noi andiamo piano, la Cina vola. Eppure le cose non sono così nette quando si scende nel dettaglio, che però è anche sostanza.
Fca, Telecom Italia, Enel, Generali e Terna sono solo alcune delle realtà industriali italiane dove le aziende cinesi hanno una partecipazione. Il picco degli investimenti si è avuto soprattutto tra il 2014 e il 2015, anno in cui il gigante della chimica cinese, China National Chemical, ha acquisito una quota di controllo in Pirelli per 7,3 miliardi di euro.
In realtà l’annuncio che la Banca d’Italia compra titoli cinesi nasconde una preciso intento diplomatico ed economico. Il messaggio è indiretto ma chiaro agli interlocutori internazionali: Italia e Cina hanno l’obiettivo comune di difendere la stabilità finanziaria internazionale, i liberi commerci e sviluppare ulteriormente i rapporti economici per cui, dopo gli investimenti diretti già effettuati e le potenzialità ancora inespresse, Pechino ha un interesse concreto alla stabilità italiana.
La verità è che i cinesi dagli italiani comprano assai ma soprattutto quello che a loro interessa, nell’ottica di una strategia di espansione in Europa e nel Mediterraneo. Dal calcio (Inter e Milan) alle quote in gruppi strategici, la Cina è dall'inizio del 2014 sempre più presente nell'industria italiana.
Fca, Telecom Italia, Enel, Generali e Terna sono solo alcune delle realtà industriali italiane dove le aziende cinesi hanno una partecipazione. Il picco degli investimenti si è avuto soprattutto tra il 2014 e il 2015, anno in cui il gigante della chimica cinese, China National Chemical, ha acquisito una quota di controllo in Pirelli per 7,3 miliardi di euro.
Gli investimenti cinesi vanno dai 400 milioni di euro di Shanghai Electric in Ansaldo Energia all’acquisizione del 35% di Cdp Reti da parte del colosso dell'energia elettrica di Pechino, China State Grid, per un valore complessivo di 2,81 miliardi di euro. Interessati dalle mire cinesi sono stati anche i gruppi dell'agroalimentare, come il brand Filippo Berio, controllato da Salov, in cui il gruppo cinese Bright Food ha acquisito una quota di maggioranza, o quelli della moda, con il passaggio di Krizia al gruppo di Shenzhen, Marisfrolg. Tra gli investimenti più recenti, da ricordare, nel 2017, l'acquisizione del gruppo biomedicale Esaote da parte di un consorzio nel quale figura anche Yufeng Capital, co-fondato dal patron di Alibaba, il gigante dell'e-commerce cinese, Jack Ma.
Questo, sopra ogni cosa, interessa oggi ai cinesi: le nuove “Vie della Seta”, i collegamenti terrestri, marittimi e aerei dell’Eurasia. Ed è questo che hanno chiesto anche al ministro Tria mentre stanno puntando il mirino sul porto di Trieste - e la nuova zona franca - come punto di approdo in Europa per i mercantili in arrivo dalla Cina meridionale attraverso l’Oceano Indiano e Suez.
L’interesse della Cina verso l'Italia non è sfuggito ai nostri concorrenti: secondo uno studio pubblicato nel 2017 dal Mercator Institute for China Studies di Berlino e dal gruppo di consulenza Rhodium Group, tra il 2000 e il 2016, l'Italia è stata al terzo posto, tra i Paesi dell'Unione Europea, come meta degli investimenti cinesi, a quota 12,8 miliardi di euro. Hanno fatto meglio solo la Gran Bretagna, a quota 23,6 miliardi, e la Germania, in seconda posizione con 18,8 miliardi di euro. La tendenza è cambiata alla fine del 2016 quando Pechino ha dato un taglio allo shopping sfrenato dei gruppi cinesi all'estero per concentrarsi sui progetti di sviluppo industriale e su quelli che rientrano nell'iniziativa di sviluppo infrastrutturale tra Asia, Europa e Africa Belt and Road, lanciata dal presidente cinese, Xi Jinping, nel 2013.
Questo, sopra ogni cosa, interessa oggi ai cinesi: le nuove “Vie della Seta”, i collegamenti terrestri, marittimi e aerei dell’Eurasia. Ed è questo che hanno chiesto anche al ministro Tria mentre stanno puntando il mirino sul porto di Trieste - e la nuova zona franca - come punto di approdo in Europa per i mercantili in arrivo dalla Cina meridionale attraverso l’Oceano Indiano e Suez. Da quando i cinesi gestiscono il Pireo, il traffico dei container è aumentato di 6 volte, e il porto è passato dalla 93esima posizione mondiale alla 36esima, diventando il terminal con la crescita più rapida al mondo.
Dietro a questa strategia cinese non ci sono solo i commerci. Secondo i dati sulla spesa militare globale diffusi dal Sipri la Cina è il secondo paese per spesa militare complessiva dopo gli Stati Uniti, che con oltre 600 miliardi di dollari contro 225 conservano saldamente la prima posizione. Quello che colpisce è lo straordinario aumento della spesa militare cinese, più che raddoppiata dal 2008 a oggi, mentre gli Usa l'hanno diminuita del 14%. Un evento di portata storica per la semplice ragione che certifica la Cina come potenza non solo economica ma anche militare: un evento che ci riguarda direttamente.
Da più di un anno è attiva la base di Gibuti, obiettivo la creazione di un corridoio privilegiato di accesso al canale di Suez, una nuova “via della seta” agevolata dallo stretto rapporto con l’Egitto di Al Sisi. È proprio l’ “hub” nell’ex-colonia francese a issare la Cina al rango di potenza militare globale proiettata anche verso il Mediterraneo oltre che in Africa, su un palcoscenico dove dominano Washington e la Nato. Forse ancora non a lungo: anche per questo l’Italia ha un ruolo non secondario nelle strategie cinesi.
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- Scritto da Michele Paris
I recenti successi militari dell’esercito di Assad nel sud della Siria hanno spianato la strada alla concentrazione di forze nella provincia nord-occidentale di Idlib, dove sembra essere sempre più probabile un’offensiva contro le rimanenti formazioni armate dell’opposizione fondamentalista e filo-occidentale. La prospettiva del ritorno anche di quest’area del paese mediorientale sotto il controllo di Damasco ha parallelamente mobilitato gli stessi gruppi anti-Assad e i paesi occidentali, ben decisi a ostacolare l’avanzata delle forze governative appoggiate da Russia e Iran.
Dai commenti di vari esponenti dei governi in Occidente e dalle manovre militari in atto, sono in molti a intravedere i preparativi per una possibile aggressione contro Damasco. Un’iniziativa bellica che avrebbe luogo a tutti gli effetti a favore delle organizzazioni integraliste che controllano circa il 70% del territorio del governatorato di Idlib.
Una di queste formazioni, anzi la principale, è la filiale di al-Qaeda in Siria, già denominata Fronte al-Nusra e da qualche tempo ribattezzata Hayat Tahrir al-Sham (HTS). Quest’ultima controlla buona parte dell’area di Idlib in collaborazione con altre fazioni jihadiste, mentre altri gruppi ancora sono protagonisti di scontri fratricidi che stanno favorendo la preparazione dell’offensiva governativa.
L’esercito siriano avrebbe comunque già operato alcuni bombardamenti preparatori nella regione e al confine meridionale di Idlib si sono registrati movimenti importanti di truppe governative. La battaglia di Idlib minaccia di essere la più cruenta del lungo conflitto siriano e più di un osservatore ritiene probabile che un’eventuale vittoria di Damasco potrebbe segnare l’inizio della fine della guerra stessa.
Dopo oltre sette anni di scontri e di investimenti enormi sull’opposizione armata da parte dell’Occidente e di molti regimi arabi, così come della Turchia, l’ipotesi di una vittoria decisiva sul campo del regime di Assad è vista con orrore dai rivali di quest’ultimo, nonostante ciò comporterebbe in larga misura la sconfitta del terrorismo in Siria.
A dare un segnale chiarissimo della disponibilità occidentale a intervenire in aiuto dei gruppi fondamentalisti, inclusa la succursale siriana di al-Qaeda, sono stati esponenti dei governi di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Tutti hanno avvertito Assad che le loro forze armate sono pronte a colpire se saranno usate armi chimiche contro i civili a Idlib.
Visti i precedenti, è più che evidente che le minacce rappresentano un messaggio inequivocabile mandato all’opposizione armata per incoraggiare un finto attacco con armi chimiche, la cui responsabilità andrebbe nuovamente attribuita in maniera sommaria ad Assad, così da giustificare un intervento militare contro Damasco.
Ciò è già accaduto più volte in questi anni e l’ultima volta nel mese di aprile, quando il presidente americano Trump autorizzò il lancio di missili contro postazioni militari e governative in Siria ufficialmente in risposta a un attacco con armi chimiche nella località di Douma, vicino a Damasco. Quel blitz era stato deciso malgrado non esistessero prove della responsabilità di Assad e, anzi, lo stesso uso di sostanze chimiche era subito apparso fortemente in dubbio.
Il consigliere per la Sicurezza Nazionale della Casa Bianca (ed ex ambasciatore americano all’ONU), John Bolton, ha formulato la nuova minaccia contro Damasco nel corso di una conferenza stampa a Gerusalemme qualche giorno fa dove ha significativamente collegato le politiche siriane del suo paese alla guerra economica e diplomatica in atto contro l’Iran.
Bolton ha ricordato come gli USA intendano rovesciare il regime di Assad in Siria anche e soprattutto per cancellare la presenza della Repubblica Islamica in questo paese, nel quadro di una competizione per l’egemonia sul Medio Oriente tra le forze filo-americane e quelle della “resistenza” sull’asse Beirut (Hezbollah)-Damasco-Teheran.
L’innalzamento dei toni da parte degli Stati Uniti sulla Siria e sull’Iran coincide anche con un ulteriore rafforzamento dei rapporti e della collaborazione tra questi due paesi. Lunedì, Damasco e Teheran hanno sottoscritto un accordo di difesa che suggella la prosecuzione della presenza iraniana in Siria. Il governo iraniano ha poi espresso l’auspicio di poter svolgere un “ruolo produttivo” nel processo di ricostruzione post-bellica della Siria.
La risposta degli Stati Uniti e dei loro alleati a queste dinamiche resta esclusivamente il ricorso all’opzione militare. Il portavoce del ministero della Difesa russo, generale Igor Konsashenkov, ha affermato questa settimana che Washington ha portato un’altra nave da guerra, armata di missili “cruise”, nel Golfo Persico e un bombardiere B-1B nella base americana di Al-Udeid, in Qatar in preparazione di un possibile attacco.
Lo stesso Konsashenkov e altre fonti mediorientali hanno anche avvertito che gli uomini di Hayat Tahrir al-Sham, cioè la filiale di al-Qaeda in Siria, avrebbero trasportato nella città di Jisr ash-Shugur, nella provincia di Idlib, importanti quantità di cloro per mettere in scena un attacco chimico da attribuire al regime di Assad.
In questo stesso quadro si inseriscono anche le dichiarazioni di martedì del presidente Trump e della cancelliera tedesca Merkel, diffuse dopo una conversazione telefonica. Entrambi i leader hanno invocato uno “sforzo internazionale” per prevenire una crisi umanitaria a Idlib. Singolarmente, nessun appello di questo genere viene fatto invece dall’Occidente per fermare la strage di civili in Yemen per mano dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi, con l’assistenza di Washington.
Un altro evento a cui gli USA e i loro alleati guardano in relazione alla Siria è l’incontro del 7 e dell’8 settembre prossimi nella città iraniana di Tabriz tra i presidenti di Russia, Iran e Turchia. Il vertice dovrebbe appunto decidere i tempi dell’offensiva di Idlib. Soprattutto, Mosca e Teheran dovranno superare le resistenze di Erdogan, contrario all’operazione in primo luogo per il numero di rifugiati che si riverseranno sulla Turchia.
Ankara teme inoltre che, dopo il ritorno di Idlib sotto il controllo di Damasco, le mire di Putin e Assad potrebbero spostarsi sul territorio siriano settentrionale occupato dalle forze turche. Secondo gli accordi trilaterali tra Turchia, Russia e Iran, Erdogan avrebbe dovuto d’altronde garantire la separazione tra i guerriglieri fondamentalisti e quelli “moderati” a Idlib.
Questo compito non è però mai stato portato a termine, tanto che ora il Cremlino avrebbe dettato una sorta di ultimatum allo stesso Erdogan, chiedendogli di cooperare nell’imminente offensiva oppure di sgomberare i suoi uomini dai 12 punti di osservazione che nella stessa provincia nord-occidentale fungono da cuscinetto tra il regime e i “ribelli”.
La Turchia sembra avere ormai abbandonato le velleità di rovesciare Assad, ma intende comunque perseguire almeno un paio di obiettivi: impedire la formazione di una regione autonoma curda oltre i propri confini meridionali e ottenere il massimo possibile da un eventuale piano di pace che metta fine al conflitto siriano.
Se la situazione sul campo appare ormai segnata, i prossimi sviluppi della guerra saranno tuttavia influenzati dalle manovre degli Stati Uniti. A Washington e all’interno dell’amministrazione Trump persistono forti divisioni sul coinvolgimento nel conflitto, ma sempre più sembra prevalere la posizione dei “falchi”, come il consigliere per la Sicurezza Nazionale Bolton.
La promessa di Trump di ritirare i soldati USA presenti illegalmente in Siria deve fare i conti anche con una situazione interna complicata, visto che nelle ultime settimane la posizione del presidente nell’ambito del “Russiagate” si è fatta più precaria. Una nuova avventura bellica all’estero potrebbe perciò allentare le pressioni sull’amministrazione, tanto più che i rivali di Trump chiedono da tempo un impegno maggiore in Siria in chiave anti-russa.
Quel che appare scontato è in ogni caso il tentativo, in un modo o nell’altro, da parte degli Stati Uniti di impedire o, quanto meno, ostacolare un esito del conflitto siriano nel quale non sia Washington a dettarne i termini secondo i propri interessi strategici.