Per tre mesi, Daniel Ortega e il suo governo sono stati sottoposti a intense pressioni da parte di manifestanti, gruppi di opposizione, media locali e politici della destra conservatrice statunitense, affinché abbandonassero il potere. A metà luglio è diventato però chiaro che, nonostante la stampa internazionale continui a parlare di un paese sull’orlo del collasso, il Nicaragua sta lentamente ritrovando una certa tranquillità e normalità. Come è possibile che un movimento di protesta che appariva indistruttibile abbia perso forza in così poco tempo?

 

Ortega è al potere dal 2007. Nelle ultime elezioni (2016) ha ottenuto il 72% dei consensi e fino a poco tempo fa quasi tutti i sondaggi mostravano un alto grado di apprezzamento nei confronti del governo. Nonostante ciò, basta leggere i principali organi di informazione nazionali e internazionali per avere l’impressione che la popolazione nicaraguense provi nei suoi confronti un profondo disprezzo.


Persone e organizzazioni che si riconoscono e diffondono l’hashtag #SOSNicaragua lo definiscono “un tiranno impegnato a reprimire nel sangue la rivolta”. I detrattori locali condividono totalmente questa visione. Lo scorso 10 luglio, per esempio, Vilma Nuñez, attivista per i diritti umani, ex alleata di Ortega passata poi all’opposizione, ha detto alla BBC che il presidente sta portando avanti un “piano di sterminio” contro il popolo.

 

Quando, alcune settimane fa, i ‘ribelli’ hanno preso il controllo - per un breve periodo - di una città, i loro leader hanno affermato di aver posto fine a “undici anni di repressione“. #SOSNicaragua afferma addirittura che Ortega è un tiranno di lunga data “odiato ancora di più di Somoza” (riferendosi a Anastasio Somoza e alla sua famiglia, che hanno governato con il pugno di ferro il Nicaragua per oltre 40 anni).

 

Fakenews
Uno sguardo ai social network confermerebbe che ci sono molte persone che condividono questo pensiero. Quegli stessi social che hanno giocato un ruolo molto importante all’interno della crisi e che hanno contribuito ai momenti di maggiore popolarità dei manifestanti anti-governo. Ma il primo grosso errore dell’opposizione è stato proprio l’uso di una retorica esagerata, che ha portato la gente a domandarsi se la realtà coincidesse con la percezione di realtà creata dai social.

 

Facciamo un esempio. Fino ad aprile, il Nicaragua era il secondo paese più sicuro dell’America Latina. A differenza dei paesi del ‘triangolo del nord’ (Honduras, El Salvador e Guatemala), la polizia nicaraguense era famosa per essere profondamente radicata nel tessuto sociale cittadino e gli omicidi commessi dai suoi agenti erano una rarità. I reati legati alla droga erano minimi e non c’erano bande criminali organizzate (maras) come nei paesi vicini. Ora l’opposizione dice che questa stessa polizia assassina e massacra la gente e la incolpa di essere responsabile della maggior parte dei morti durante le proteste.

 

Nessuno ha messo in discussione questa tesi, nè ha posto pubblicamente la domanda di come sia possibile che un corpo di pubblica sicurezza possa cambiare dal giorno alla notte, e che i suoi agenti si siano trasformati in feroci assassini, capaci addirittura di torturare e uccidere bambini.


Non c’è dubbio che ci siano state morti violente negli ultimi tre mesi. Bloomberg ha riportato le statistiche di vari gruppi locali di diritti umani, alcune delle quali stimano in oltre 440 le persone morte tra aprile e luglio. Tuttavia, un’analisi dettagliata delle morti registrate nei primi due mesi della crisi mostra quanto queste cifre siano state manipolate.

 

Mentre le due principali organizzazioni per i diritti umani e la Commissione interamericana per i diritti umani, Cidh, registravano quasi 300 morti, un’analisi indipendente ‘caso per caso’ evidenziava che ‘solo’ 120 erano riconducibili alle proteste e che il resto erano dovute ad altri fattori, a cause non chiare, erano passanti o le morti erano state contate due volte.

 

Ciò che però è rimasto impresso nella mente di molti sono i numeri gonfiati (l’altro giorno qualcuno ha detto a mia moglie che erano centinaia gli studenti uccisi), ma sono anche tante le persone che oramai hanno capito che non ha senso parlare di massacro.


In una cosa l’opposizione ha avuto successo. È riuscita a creare ciò che The Guardian definisce “un consenso generalizzato e crescente all’interno della comunità internazionale, secondo la quale il governo del Nicaragua è in gran parte responsabile dello spargimento di sangue“. Ma mentre le ONG dei diritti umani ripetono all’infinito il concetto che “polizia e forze di sicurezza sparano per uccidere” (parole di Amnesty International che è rimasto meno di una settimana nel paese), la maggior parte delle persone in Nicaragua sa che questo non è vero.

 

Indipendentemente da quale siano le cause delle morti durante le proteste di aprile, un fatto certo è che le vittime più recenti sono sostenitori del governo o agenti di polizia. Durante un’intervista, Nils McCune, master in agroecologia e membro dell’equipe tecnica dell’Istituto Agroecologico Latinoamericano (IALA) in Nicaragua, ha spiegato al giornalista Max Blumenthal come negli ultimi mesi sia aumentata la violenza dell’opposizione e la persecuzione contro i sandinisti.

 

Un esempio è quanto accaduto il 12 luglio, quando uomini armati hanno attaccato e ucciso quattro poliziotti e un insegnante e ne hanno tenute altre nove in ostaggio nel villaggio di Morrito. O il caso del poliziotto catturato il 15 luglio da manifestanti “pacifici” nella città di Jinotepe mentre tornava a casa. Dopo la cattura è stato torturato, ucciso e il suo corpo bruciato vicino a una delle barricate erette dall’opposizione.

 

Secondo lo studio citato precedentemente sulle morti avvenute durante i primi mesi di protesta, circa la metà corrisponde a funzionari pubblici, poliziotti o simpatizzanti sandinisti. Il 4 agosto c’è stata una marcia di sostenitori del governo a Managua per chiedere giustizia per queste morti. A livello internazionale quasi nessuno ne ha parlato o scritto, nè pensa di farlo.

 

Barricate
I manifestanti hanno detto fin dall’inizio, e poi ripetuto all’infinito, che erano disarmati e che per difendersi usavano solo ‘armi fatte in casa’. La stampa internazionale ci ha creduto e continua a farlo, mentre la popolazione ha ben presto capito che non era proprio così. Hanno iniziato con ‘morteros caseros’ per poi arrivare velocemente ad armi più serie.

 

Nei luoghi in cui i manifestanti controllavano le strade, le armi venivano mostrate senza timore. Una cosa che non dovrebbe sorprendere, visto che quella che era iniziata come una protesta degli studenti si è velocemente trasformata in un attacco sistematico alle istituzioni da parte di organizzazioni e persone -anche venute da fuori e pagate- che avevano l’obiettivo di far cadere il governo.

 

Harley Morales, uno dei leader degli studenti della protesta, ha ammesso il 10 giugno che gli studenti avevano perso il controllo di ciò che stava accadendo nelle strade. Con il passare dei giorni, la popolazione prendeva sempre più coscienza che si trattava di un tentativo di golpe, che stava trascinando il paese verso una situazione d’insicurezza e instabilità che non si sperimentava da molti anni.

 

All’interno della strategia dell’opposizione, i tranques (barricate) hanno avuto un ruolo molto importante, sia nelle città che lungo le principale vie di comunicazionie a livello nazionale. A un certo punto, il Nicaragua si è fermato ed è diventato impossibile circolare. Persone, merci, tutto paralizzato. All’interno del ‘dialogo nazionale’ il governo ha detto più volte di essere disposto e pronto a discutere qualsiasi tema, ma che parallelamente era necessario smontare le barricate e permettere la libera circolazione.

 

Se i rappresentanti dell’opposizione -che ancora oggi non si capisce chi li abbia nominati, nè in nome di chi stiano parlando e facendo proposte- fossero stati ragionevoli, avrebbero approfittato dell’occasione per costringere il governo a negoziare e ad assumere pubblicamente degli impegni. Invece, ubriacati dal potere che gli davano le barricate o, più probabilmente, privi dell’autorità necessaria per controllare chi gestiva “la strada”, hanno preferito spingere il conflitto fino allo scontro finale, permettendo che questi luoghi si trasformassero in centri di violenza, intimidazione e criminalità.

 

Da luoghi simbolo della protesta, i tranques sono diventati il motivo principale del dissenso popolare. Col passare dei giorni, la gente chiedeva con maggiore insistenza il ritorno alla ‘normalità’. In meno di due settimane, l’opposizione ha perso la sua occasione migliore e quando polizia e civili armati hanno iniziato a smantellare le barricate a León, Masaya, Carazo e un po’ in tutto il paese, la maggior parte delle persone non aspettava altro. Anche questo è stato taciuto dal mainstream, che ha preferito inventarsi una fantomatica resistenza con morti e feriti nel quartiere indigeno di Monimbó.

 

I social
Un altro errore commesso dall’opposizione riguarda l’uso (e l’abuso) dei social. Vale la pena ricordare che le prime proteste iniziarono per un incendio nella riserva naturale Indio Maíz. L’opposizione accusò il governo di avere gestito male l’emergenza e di avere rifiutato l’aiuto di paesi come il Costa Rica. Quando il governo, anche con l’aiuto di copiose piogge, riuscì a risolvere velocemente il problema, l’attenzione venne spostata su un altro tema dlicato: la riforma del sistema pensionistico.

 

Anche in questo caso si cominciò a travisare la realtà e a usare i social per manipolare le informazioni sulla riforma e su quanto stesse accadendo durante le proteste. Senza dubbio si è trattato del primo esempio di uso massiccio dei social per manipolare la realtà da quando in Nicaragua si è massificato l’uso degli smartphone. Durante i primi due mesi, il ritmo e l’intensità delle proteste era scandito dal flusso di notizie -vere o false- che circolavano sui social (principalmente twitter e facebook). Il governo cercò di reagire, ma l’opposizione si rivelò molto più preparata ed efficace.

 

Chiunque morisse era automaticamente inserito nella lista dei manifestanti assassinati, quasi sempre come studenti (dopo tre mesi dall’inizio della crisi è ormai assodato che gli studenti morti non superano la decina). Scene di studenti in lacrime rinchiusi nelle università o nascosti dietro le barricate, vittime di ipotetici attacchi armati di polizia e paramilitari, hanno riempito i social e hanno fatto il giro del mondo. Di fronte a tanta esagerazione, la popolazione cominciò a fidarsi meno dei mezzi di comunicazione e a credere di più a ciò che vedeva coi proprio occhi.

 

I giorni passavano e l’opposizione mostrava chiari segnali di disperazione. Invece di rivedere la propria strategia preferì alzare ulteriormente il livello dello scontro, usando i social per diffondere messaggi che incitavano all’odio, a rintracciare e uccidere i sapos (rospi), come venivano chiamate le persone che, in qualche modo, erano considerate vicine al governo e al Fronte Sandinista. Molte persone furono sequestrate, torturate e uccise proprio per questo tipo di campagna. Anche loro finirono nel sacco dei ‘morti per colpa della dittatura’.

 

Questo tipo d’intolleranza è stata riprodotta anche fuori dal Nicaragua, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, dove seguaci di #SOSNicaragua o, più semplicemente, persone accecate dalle fakenews dei social zittivano chiunque cercasse di analizzre il contesto nicaraguense o  proponesse un’altra versione dei fatti. Molto spesso, l’incitamento alla violenza sui social proveniva proprio da nicaraguensi che vivono all’estero. Un caso emblematico è quello dei nicaraguensi di Miami, il cui odio nei confronti dei sandinisti è di lunga data e non ha nulla a che fare con l’attuale crisi.

 

Un altro errore commesso dall’opposizione riguarda il tentativo, fallito, di fare serrate a livello nazionale. La partecipazione apparentemente massiccia di aziende e commercianti è stata dovuta più alla paura di ritorsioni violente che a una decisione cosciente. Inoltre, in Nicaragua la ‘confindustria’ (Cosep) rappresenta solamente tra il 25 e il 30% dell’economia, la quale dipende in gran parte dalle micro, piccole e medie imprese e dal settore cooperativo. Duramente colpita dalla strategia delle barricate ed esasperata dall’idea delle serrate, la piccola e media impresa ha progressivamente abbandonato la protesta. L’opposizione ha perso un altro alleato potenziale. Le pressioni degli Stati Uniti sul Cosep affinché abbandonasse la ‘luna di miele’ con il governo e si schierasse apertamente con l’opposizione non hanno quindi sortito, fino a ora, gli effetti sperati.

 

Dialogo nazionale
Marce, proteste, barricate, serrate servivano per costringere il governo a sedersi a un tavolo e accettare la resa. Tutto teletrasmesso attraverso il canale della Conferenza episcopale. Anche qui l’opposizione non solo ha perso l’opportunità di costringere il governo a fare riforme costituzionali, ma ha fallito miseramente la strategia globale. Invece di dialogare e negoziare ha preferito impuntarsi sul fatto che il presidente Ortega e il suo governo dovevano dimettersi immediatamente, in quanto responsabili di tutte le morti. Un atteggiamento che è piaciuto ai settori più radicali dell’opposizione, ma che ha scoraggiato ampie fasce della popolazione, compresi quei settori -anche della base sandinista- che seguivano il dialogo con la speranza di un accordo veloce e la fine della violenza.

 

Il dialogo nazionale ha quindi perso progressivamente d’interesse. Un po’ perché il governo ha recuperato il controllo delle strade e sta, lentamente, normalizzando la situazione e un po’ perché la gente ha oramai capito che l’unico scopo dell’opposizione era imporre la propria linea e non cercare un punto d’incontro e un accordo che ponesse fine alla violenza e alla crisi. Inoltre, i rappresentanti della chiesa cattolica, invece di farsi garanti imparziali del dialogo, hanno pensato bene di sostenere apertamente le manifestazioni dell’opposizione e di avallare la strategia dei tranques. In questo modo, la chiesa ha perso qualsiasi credibilità come figura bipartisan.

 

L’opposizione ha evidenziato un’ulteriore debolezza. Seppur unita introno all’obiettivo della caduta di Ortega, è apparsa frammentata e divisa sia sulla strategia da usare per raggiungere la meta, sia in termini politici. Alla fine nessuna novità. Era sufficiente vedere chi fossero i rappresentanti dell’opposizione all’interno dell’Alleanza Civica per capire che questo sforzo non sarebbe andato molto lontano. E così è stato.

 

Indipendentemente da ciò che si possa pensare del governo Ortega, è evidente che durante i quasi 12 di amministrazione pubblica ha tracciato un percorso ben definito per il paese e ha ottenuto importanti risultati economici e sociali. Qual è la proposta dell’opposizione? Nessuno lo sa. Nemmeno sul tema che ha originato le proteste, la riforma del sistema pensionistico, ha presentato un’alternativa. Differenze e divisioni interne impediscono di affrontare qualsiasi argomento che non sia quello del ribaltamento dell’attuale governo.

 

Falchi USA
Ancora peggio è stata l’idea di cercare alleati tra le file della destra ultraconservatrice statunitense, come hanno fatto alcuni rappresentanti di quel settore di studenti universitari che osteggiano il governo sandinista. Durante viaggi finanziati da Freedom House e USAID a Miami e Washigton in cerca di sostegno politico e finanziario, i giovani si sono fatti ritrarre  con esponenti dell’ultradestra repubblicana (Marco Rubio, Ted Cruz, i fratelli Díaz-Balart, Ileana Ros-Lehtinen). Il paradosso di tutto ciò è che la strategia usata in modo fallimentare dall’opposizione interna viene ora adottata come elemento di pressione internazionale, per obbligare il governo nicaraguense a un cambio di rotta.

 

Se per l’amministrazione Trump il Nicaragua non è una priorità, l’establishment statunitense continua a nutrire rancori profondi contro il sandinismo. Vede inoltre l’opportunità di indebolire un fedele alleato di nemici storici, come Cuba, e nemici recenti, come Venezuela e Bolivia, e di frenare il ritorno della Russia e l’approdo della Cina nella regione centroamericana. Non deve sorprendere quindi il lavoro iniziato dagli Stati Uniti, con l’aiuto dei nuovi alleati latinoamericani, all’interno dell’Organizzazione degli Stati Americani, Osa, per proiettare un’immagine sempre più negativa del Nicaragua nel mondo. Un elemento da ‘spendere’ anche all’interno del Congresso statunitense, per far approvare sanzioni che indeboliscano l’economia nicaraguense e mettano il governo sandinista con le spalle contro il muro.

 

I tanti, troppi, errori dell’opposizione e la capacità del governo di reagire hanno permesso una lenta ma progressiva ripresa, tanto che dalla metà del mese di luglio la situazione è cambiata notevolmente rispetto ai primi mesi (aprile-maggio). Ma di tutto questo nessuno ne parla. New York Times, Huffington Post, The Guardian e altri media continuano a parlare di tirannia, di crescente violenza politica, o addirittura di fascismo in Nicaragua (HuffPost). Su DemocraciaAbierta, il giornalista José Zepeda dice che “la maggior parte dei nicaraguensi hanno voltato le spalle a Ortega”. In Canada, L’Ottawa Citizen parla dell’implosione del Nicaragua. Ma la maggior parte di questi corrispondenti non vivono qui.

 

Quello che sta succedendo davvero è che è diminuita enormemente la violenza, non ci sono piu barricate e la vita è ripresa. La sensazione che prevale è di sollievo e i giornalisti meglio informati -quelli che davvero vogliono informare- hanno cominciato a dire che il tentativo di colpo di Stato è fallito.

 

Le sfide e pericoli potenziali restano comunque enormi, per un governo che ora deve riparare i danni provocati da quasi tre mesi di scontri, con entrate fiscali e investimenti internazionali che hanno toccato il minimo storico, con un settore importante come il turismo che vive il suo peggior momento. E senza dimenticare l’ostilità di paesi vicini e della maggior parte dei governi latinoamericani (in mano alle destre) e le possibili sanzioni economiche da parte degli Stati Uniti.

 

Un fatto è certo: se l’opposizione si era immaginata di fare tabula rasa del governo Ortega e del sandinismo, il risultato che ha ottenuto potrebbe essere addirittura l’esatto contrario e cioè una maggiore compattazione della popolazione intorno al governo, che da questa crisi potrebbe uscirne addirittura rafforzato.

 

fonte: Open Democracy

Il segretario di Stato, Mike Pompeo, il 16 agosto 2018 ha annunciato la creazione di un «Gruppo d’Azione per l’Iran» (Iran Action Group), incaricato di coordinare la politica degli Stati Uniti dopo il ritiro dall’accordo 5+1 sul nucleare (JCPoA). L’annuncio coincide con la decisione del presidente Donald Trump di soprassedere sine die alla messa in atto del suo piano per il Medio Oriente (the deal of the century). Infatti, in Palestina nulla potrà cambiare senza l’appoggio dell’Iran.

 

Peraltro, ricordiamo che il Trattato JCPoA di Barack Obama non è stato concepito per impedire all’Iran di fabbricare la bomba atomica: questo è stato solo il pretesto. Il vero scopo era privare il Paese di scienziati di alto livello e impedirgli di essere tecnologicamente all’avanguardia [2]. In effetti, l’accordo ha costretto l’Iran a chiudere numerose facoltà.

 

Per i democratici, l’amministrazione Trump vuole riavviare la politica di mutamento di regime in Iran dei neoconservatori, come proverebbe la data scelta per l’annuncio: il 65° anniversario del colpo di Stato anglo-statunitense contro il primo ministro Mohammad Mossadeq. Tuttavia, l’«operazione Ajax» del 1953, che certamente ha ispirato i neoconservatori, è anteriore al loro movimento e non può in alcun modo essere messa in relazione con loro. Inoltre, i neoconservatori sono stati certamente al servizio del Partito Repubblicano, ma anche del Partito Democratico.

 

Durante la campagna elettorale e nei suoi primi giorni alla Casa Bianca, Trump ha continuato a stigmatizzare il pensiero globalista dei neoconservatori e a giurare che mai più gli Stati Uniti avrebbero cercato di cambiare con la forza i regimi di Paesi stranieri. Quanto alla segreteria di Stato, essa afferma che la coincidenza delle date è assolutamente fortuita.

 

fonte: www.voltairenet.org

 

Sono chiamati «neoconservatori» un gruppo d’intellettuali trotskisti, quindi oppositori del concetto Stato-Nazione, militanti del Social Democrats USA, che si avvicinarono alla CIA e all’MI6 per contrastare l’Unione Sovietica. I neoconservatori furono associati al potere da Ronald Reagan e, in seguito, cavalcarono l’onda delle alternanze politiche statunitensi, conservando il potere con Bush padre, Clinton, Bush figlio e Obama. Oggi hanno il controllo di un’agenzia d’intelligence che i «Cinque occhi» (Australia, Canada, Nuova Zelanda, Regno Unito, USA) condividono: la National Endowment for Democracy (NED). Fautori della «rivoluzione mondiale», hanno divulgato il concetto di «democratizzazione» dei regimi per mezzo di «rivoluzioni colorate», o direttamente con la guerra.

 

Nel 2006, in seno all’amministrazione Bush Jr., crearono il Gruppo per la Politica e le Operazioni in Iran e Siria (Iran Syria Policy and Operations Group), diretto da Elizabeth Cheney, figlia del vicepresidente Dick Cheney. Inizialmente, l’organizzazione fu ospitata dal Dipartimento della Difesa, per essere poi trasferita nei locali del vicepresidente. Si articolava in cinque sezioni:
  Trasferimento di armi in Iran e Siria, attraverso Bahrein, Emirati Arabi e Oman;
  Sostegno a trotskisti e alleati in Iran (i Mujaheddin del Popolo) e in Siria (Riad al-Türk, Georges Sabra e Michel Kilo);
  Sorveglianza delle reti bancarie iraniane e siriane;
  Infiltrazione di gruppi pro-iraniani e pro-siriani del Medio Oriente Allargato;
  Intromissione nei media della regione per instillarvi propaganda USA.

 

Il gruppo fu sciolto ufficialmente nel 2007. In realtà, fu assorbito da una struttura ancora più segreta, incaricata della strategia per la democrazia globale (Global Democracy Strategy), che, guidata dal neoconservatore Elliott Abrams (quello dell’«affare Iran-Contras») e da James Jeffrey, estese la propria competenza ad altre regioni del pianeta. Quest’organismo soprintese alla pianificazione della guerra contro la Siria.

 

Dopo il lungo colloquio di Abrams con il nuovo inquilino della Casa Bianca, la stampa statunitense, violentemente antagonista di Trump, lo presentò come il politico con le maggiori chance di ricoprire l’incarico di segretario di Stato nella nuova amministrazione. Evidentemente non è andata così. Tuttavia, l’accusa a Trump di voler resuscitare la strategia dei neoconservatori è accreditata dalla nomina dell’ambasciatore Jeffrey come rappresentante speciale per la Siria.

 

Jeffrey è un diplomatico di carriera: in Bosnia-Erzegovina mise in atto l’applicazione degli accordi di Dayton; era in servizio in Kuwait al momento dell’invasione irachena; nel 2004, agli ordini di John Negroponte, supervisionò in Iraq la transizione dall’Autorità Provvisoria della Coalizione (una società privata) al governo iracheno post-Saddam Hussein; fece parte del gabinetto di Condoleezza Rice a Washington e partecipò al Gruppo per la Politica e le Operazioni in Iran e in Siria; fu uno dei teorici del nuovo spiegamento USA in Iraq (the surge), messo in atto dal generale Petraeus. Durante la guerra in Georgia fu vice del consigliere nazionale per la Sicurezza, Stephen Hadely e, in seguito, ambasciatore di Bush Jr. in Turchia, nonché di Obama in Iraq.

 

A un esame più approfondito si constata che, dopo la dissoluzione dell’URSS, tutta la carriera Jeffrey ruota intorno all’Iran, ma non necessariamente per contrastarlo. Per esempio, nella guerra di Bosnia-Erzegovina, agli ordini del Pentagono, si batté a fianco dell’Arabia Saudita. In compenso, in Iraq si oppose all’influenza di Teheran. Quando invece la Georgia attaccò Ossezia e Abkhazia non difese il presidente Saakachvili, sapendo che aveva concesso a Israele l’utilizzo di due aeroporti per attaccare l’Iran.

 

Mike Pompeo ha nominato Brian Hook capo del Gruppo d’Azione per l’Iran. È un interventista che fu assistente di Condoleezza Rice per le organizzazioni internazionali. Fino a oggi è stato incaricato di elaborare le strategie del dipartimento di Stato.

 

Secondo Pompeo, obiettivo di questo nuovo gruppo non è cambiare il regime iraniano, bensì costringere il Paese a cambiare politica. Questa strategia coincide con un periodo di crisi economica e politica importante per la Repubblica Islamica. Mentre il clero, rappresentato sia dallo sceicco presidente sia dall’ayatollah Guida della Rivoluzione, continua ad aggrapparsi al potere, manifestazioni ostili al clero stanno scuotendo il Paese.

 

Diversamente da quel che crede l’Occidente, la rivoluzione dell’Ayatollah Khomeini non era clericale, bensì antimperialista. Le proteste di oggi possono perciò sfociare in un cambiamento di regime, oppure nella prosecuzione della rivoluzione khomeinista, sbarazzandosi però del clero. Quest’ultima è l’opzione dell’ex presidente Ahmadinejad (oggi agli arresti domiciliari) e del suo vicepresidente Baghaie (condannato a 15 anni al termine di un processo di cui nulla è trapelato).

 

Il 21 marzo scorso Mike Pompeo presentò alla Fondazione Heritage i 12 obiettivi per l’Iran. A prima vista, l’esposizione sembra una lunga lista di pretese impossibili. Tuttavia, a un più attento esame i punti da 1 a 3 sul nucleare si rivelano meno ambiziosi del JCPoA. Il punto 4 sui missili balistici è inaccettabile. I punti da 5 a 12 mirano a convincere l’Iran a rinunciare a esportare la rivoluzione con le armi.

 

Il 15 agosto, ossia la vigilia dell’annuncio di Pompeo, la Guida della Rivoluzione, ayatollah Ali Khamenei, ha riconosciuto di aver commesso un errore autorizzando i collaboratori dello sceicco Rohani a negoziare con l’amministrazione Obama l’accordo JCPoA. Occorre sapere che la Guida aveva autorizzato questi negoziati prima dell’elezione di Rohani e che quest’ultima, al pari dell’evizione del movimento di Ahmadinejad, era stata oggetto di trattative.

 

Ahmadinejad, che fa distinzione fra la politica del presidente Obama e quella del presidente Trump, subito dopo l’elezione di quest’ultimo gli ha scritto, mostrando di condividere la sua analisi del sistema globale di Obama-Clinton e delle dure ripercussioni sia sui cittadini statunitensi sia sul resto del mondo.

 

Quando, a dicembre 2007, iniziarono le manifestazioni, il governo Rohani accusò Ahmadinejad di esserne responsabile. A marzo 2018 l’ex presidente consumò la rottura con la Guida della Rivoluzione rivelando che il suo ufficio aveva sottratto 80 miliardi di rial a fondazioni caritative e religiose. Due settimane prima dell’annuncio di Pompeo Ahmadinejad, benché agli arresti domiciliari, chiese le dimissioni del presidente Rohani.

 

Tutto quindi fa pensare che, se l’amministrazione Obama sosteneva Rohani, quella di Trump sostiene invece il partito di Ahmadinejad, così come accadde che il presidente Carter e il suo consigliere Brzezinski lanciarono l’operazione Eagle Claw contro la Rivoluzione, mentre il presidente Reagan sostenne l’imam Khomeini (October surprise).

 

In altre parole, la Casa Bianca potrebbe accontentarsi di un ritorno al potere del partito di Ahmadinejad, a condizione che questi sia in grado di prendere l’impegno che l’esportazione della Rivoluzione prosegua esclusivamente tramite il dibattito delle idee.

È possibile che il gravissimo incidente del crollo del ponte di Genova diventi occasione per una accelerazione del dialogo tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle. O, come antipasto, con una parte del Movimento 5 Stelle?

 

Infatti alla Festa dell'Unità che si terrà quest'anno a Ravenna, il prossimo 24 agosto, ci sarà, tra gli ospiti d'onore, Roberto Fico. Ufficialmente è stato invitato nella sua augusta qualità istituzionale di Presidente della Camera dei Deputati, ma è chiaro sia il significato dell'invito, sia quello della sua accettazione. Il primo dei due significati lo ha sottolineato il segretario del PD, Martina, annunciando il "passaggio dall'opposizione all'alternativa".

 

Fuori dal politichese, indica che è finita la fase quasi "aventiniana" del Partito Democratico, che durava dalla tremenda batosta subita nell'elezione del 4 marzo e dalla posizione assunta subito dopo da Matteo Renzi - che era e resta il padrone del PD attuale - : opposizione senza se e senza ma al governo Lega-5 Stelle. Ma cinque mesi sono passati e, in pratica, il PD è rimasto fermo a rimuginare sulle cause della sconfitta e sulle possibili vie di rimonta verso il potere.

 

Il Governo in carica non ha mostrato grandi illuminazioni, ma non è crollato sotto il peso delle profonde differenze che lo dividono. E, dunque, in attesa che qualche cosa accada, magari dall'esterno, che metta a dura prova la tenuta dell'esecutivo (ad esempio un rating negativo delle agenzie internazionali che controllano lo stato del debito pubblico italiano), il vertice, seppure "dimezzato" del PD sta sondando il terreno per verificare se sia possibile utilizzare subito le visibili crepe dentro la coalizione di governo.

 

Roberto Fico ha dato segni, per conto proprio, di muoversi lasciando aperto il dialogo con il Partito Democratico. Lo ha fatto polemizzando apertamente con il capo della Lega, Matteo Salvini in tema di immigrazione. E lo ha fatto in parallelo con inequivocabili dichiarazioni critiche provenienti dal Colle. Lo si è percepito tanto nettamente che qualcuno si è già spinto a parlare di un "partito mattarelliano", ovvero di un qualche centro di aggregazione politica che potrebbe attirare, oltre al PD in blocco, a Liberi e Uguali, anche una parte del gruppo parlamentare del M5S.

 

Ma la tragedia di Genova sembra, al contrario, mostrare segni di rafformzamento della coalizione. La triade Salvini-Di Maio-Toninelli (quest'ultimo ministro dei trasporti) si è mossa in sintonia andando all'attacco della Società Autostrade e annunciando l'avvio delle procedure per il ritiro della concessione. I grandi organi d'informazione si stanno schierando contro questa eventualità, che tuttavia avrebbe sicuramente un grande consenso popolare. Anche perché potrebbe condurre ad altre decisioni governative anti-privatizzazioni.

 

È comunque evidente che il Governo sarà sottoposto a una serie di fortissime pressioni, con particolare riguardo sui temi delle cosiddette "risorse" disponibili per effettuare i cambiamenti annunciati: la flat tax (molto impopolare) e il reddito di cittadinanza (popolare ma ancora non chiaro). E il provveddimento annunciato contro le cosiddette "pensioni d'oro", divide il paese. C'è chi scommette che uno show down sia imminente.

 

fonte: it.sputniknews.com

Pochi minuti dopo il disastro di Genova, il leghista Alberto Bagnai, presidente della Commissione Finanze del Senato, twittava felice: «Austerità». Individuava cioè nei governi tecnici i colpevoli della strage, additandoli alla sua corte con la bava alla bocca. Sembrava solo la fuga in avanti di un estremista abituale, ma rappresentava l’antipasto del doppio binario che l’intera maggioranza avrebbe percorso a velocità crescente.

 

Poco dopo, intervistato a Radio Rai, il ministro Toninelli faceva propria, orecchiandola, una teoria avanzata da uno studio ben più approfondito di Milena Gabanelli e individuava, tra i problemi, «i Tir polacchi sovraccarichi perché la loro cultura è diversa dalla nostra». Un fricandò giallobruno che partiva da un dato vero - manca, a tutti i livelli, un controllo delle strade e del territorio - identificando un responsabile altro da noi su base etnica. L’invasore.


Pareva chiaro da subito come l’ossessione fosse quella di allontanare sospetti che nessuno dotato di senno poteva covare, ancorché - come sarebbe risultato poi - i grillini serbassero nell’armadio lo scheletro della Gronda autostradale che forse avrebbe allungato la vita al Ponte Morandi. E che combatterono in nome del loro tradizionale "no tutto", tipico di una democrazia condominiale basata su litigiosità e inerzia.

 

Ma col passare delle ore la strategia si raffinava e da difensiva si spostava verso la ricerca del lucro. Ecco allora Salvini procedere dietro al corteo funebre gettando mortaretti sovranisti di bassa propaganda. Pretendere da Bruxelles, sempre a petto e mascella in fuori, poderosi sforamenti del deficit «per mettere in sicurezza le strade con un grandioso Piano Marshall». Ribaltando oltre confine le colpe di un Paese che ogni anno produce 180 miliardi di nero. Soldi che gli italiani (elettori) rubano ad altri italiani. Recuperando un decimo dei quali potremmo farle di platino, le autostrade.


Ecco, soprattutto, Luigi Di Maio. Impegnato da una parte a respingere accuse inesistenti («Se volete dare la colpa al Movimento del ponte crollato… ») e dall’altra a trasformarsi in magistratura inquirente contro i soliti nemici in nome comune: Autostrade per l’Italia (che certo non se la passa bene: ma devono dirlo i giudici) e, naturalmente, i " giornaloni" che le avrebbero protette perché foraggiati dalle medesime.


Dovrebbe esserci un limite all’avvelenamento dei pozzi per scopi di becera speculazione, comodamente protetti dall’immunità parlamentare. Ma siccome l’ansia vendicativa del governo rischia di diventare una slavina, che già sparge la calce viva della bassa politica su decine di vittime, facciamo che ho trovato qualcuno a cui dare la colpa e lo immolerò per tacitare il giochino al massacro.


Sono Stato io. Sono Stato io, che pago le tasse ma non metto le mani addosso a chi non lo fa.

Sono Stato io, che con (almeno) quattro regioni nelle mani delle mafie non sono in piazza tutti i giorni a chiedere giustizia.

Sono Stato io, che appartengo a un’area politica sospesa tra complessi di superiorità e rassegnazione ai "barbari" che arrivano.

Sono Stato io, che ho assistito impotente alla mutazione di parte di quell’area politica nella parodia malriuscita della Casaleggio Associati.
Sono Stato io, che tollero il crollo dei servizi per tutti perché qualcuno posso ancora pagarmelo in privato.

Sono Stato io, che prendo la macchina anche per fare 100 metri e chiedo a gran voce più ferrovie.
Sono Stato io, che d’istinto penso alle linee merci come soluzione, pure quella tra Torino e Lione, ma non mi arrischio a scriverlo per paura di finire nel mirino. È capitato persino a quel brav’uomo di Gian Carlo Caselli.
Sono Stato io, che non ho il coraggio di mettere in relazione, per analizzare il baratro della nostra coscienza civile, le parole degli abitanti di San Luca ieri («La ’ndrangheta non è qui, è a Roma » ) con quelle di Grillo ( « La mafia non strangola, lo Stato sì » ) e di Di Maio ( « Nella terra dei fuochi lo Stato ha fatto più danni della camorra»).


Sono Stato io, che ho camminato di fianco ai Robespierre perché di fronte c’era Berlusconi, e ho permesso loro di diventare giustizieri da palcoscenico nel nome di quelli che Berlusconi l’hanno sempre votato. E ora si sono scelti un altro omino forte. Pure questo spesso in mutande.


Sono Stato io, che mi vergogno di essere rappresentato da certa gente, dalla loro micragna espressiva e intellettuale, dalla speculazione che mettono in atto anche di fronte a tragedie immani, dall’impreparazione patente e aggressiva che grondano da ogni poro, ma non ho la benché minima idea di come si possa uscire da questo sequestro emotivo cui il mio popolo si è consegnato festante.

Sono Stato io.
Adesso mettetevi a cercare chi è stato a Genova. Una volta tanto in silenzio, se vi riesce. Perché siete Stato anche voi.

 

fonte: La Repubblica

L’Unione europea ha appena deciso di triplicare i fondi per la gestione dei migranti: la somma messa a bilancio passerà dagli attuali 13 miliardi di euro (anni 2014-2021) ai futuri 35 miliardi di euro (anni 2021-2027). Prima di compiere l’analisi dei costi preventivati, dove i soldi vanno, per fare cosa, dobbiamo sapere cosa noi prendiamo dall’Africa, e cosa restituiamo all’Africa. Se noi aiutiamo loro oppure se loro, magari, danno una mano a noi.

 

Conviene ripetere e magari ripubblicare. Quindi partire dalle basi, dai luoghi in cui i migranti partono. Roberto Rosso, l’uomo che dai jeans ha ricavato un mondo che ora vale milioni di euro, ha domandato: “Come mai spendiamo 34 euro al giorno per ospitare un migrante se con sei dollari al dì potremmo renderlo felice e sazio a casa sua?” Già, come mai? E perché non li aiutiamo a casa  loro?

 

Casa loro? Andiamoci piano con le parole. Perché la loro casa è in vendita e sta divenendo la nostra. Per dire: il Madagascar ha ceduto alla Corea del Sud la metà dei suoi terreni coltivabili, circa un milione e trecentomila ettari. La Cina ha preso in leasing tre milioni di ettari dall’Ucraina: gli serve il suo grano. In Tanzania acquistati da un emiro 400mila ettari per diritti esclusivi di caccia. L’emiro li ha fatti recintare e poi ha spedito i militari per impedire che le tribù Masai sconfinassero in cerca di pascoli per i loro animali. La loro vita.

 

E gli etiopi che arrivano a Lampedusa, quelli che Salvini considera disgraziati di serie B, non accreditabili come rifugiati, giungono dalla bassa valle dell’Omo, l’area oggetto di un piano di sfruttamento intensivo da parte di capitali stranieri che ha determinato l’evacuazione di circa duecentomila indigeni. E tra i capitali stranieri molta moneta, circa duecento milioni di euro, è di Roma. Il governo autoritario etiope, che rastrella e deporta, è l’interlocutore privilegiato della nostra diplomazia che sostiene e finanzia piani pluriennali di sviluppo. Anche qui la domanda: sviluppo per chi?

 

L’Italia intera conta 31 milioni di ettari. La Banca mondiale ha stimato, ma il dato è fermo al 2009, che nel mondo sono stati acquistati o affittati per un periodo che va dai venti ai 99 anni 46 milioni di ettari, due terzi dei quali nell’Africa subsahariana. In Africa i titoli di proprietà non esistono (la percentuale degli atti certi rogitati varia dal 2 al 10 per cento). Si vende a corpo e si vende con tutto dentro. Vende anche chi non è proprietario. Meglio: vende il governo a nome di tutti. Case, villaggi, pascoli, acqua se c’è.

 

Il costo? Dai due ai dieci dollari ad ettaro, quanto due chili d’uva e uno di melanzane al mercato del Trionfale a Roma. Sono state esaminate 464 acquisizioni, ma sono state ritenute certe le estensioni dei terreni solo in 203 casi. Chi acquista è il “grabbatore”, chi vende è il “grabbato”. La definizione deriva dal fenomeno, che negli ultimi vent’anni ha assunto proporzioni note e purtroppo gigantesche e negli ultimi cinque una progressione pari al mille per cento secondo Oxfam, il network internazionale indipendente che combatte la povertà e l’ingiustizia. Il fenomeno si chiama land grabbing e significa appunto accaparramento della terra.

 

I Paesi ricchi chiedono cibo e biocombustibili ai paesi poveri. In cambio di una mancia comprano ogni cosa. Montagne e colline, pianure, laghi e città. Sono circa cinquanta i Paesi venditori, una dozzina i Paesi compratori, un migliaio i capitali privati (fondi di investimento, di pensione, di rischio) che fanno affari. E’ più facile trasportare una tonnellata di cereali dal Sudan che le mille tonnellate d’acqua necessarie per coltivarle. E allora la domanda: aiutiamoli a casa loro? Siamo proprio sicuri che abbiano ancora una casa? Le cronache sono zeppe di indicazioni su cosa stia divenendo questo neocolonialismo che foraggia guerre e governi dittatoriali pur di sviluppare il suo business.

 

In Uganda 22mila persone hanno dovuto lasciare le loro abitazioni per far posto alle attività di una società che commercia legname, l’inglese New Forest Company. Aveva comprato tutto: terreni e villaggi. I residenti sono divenuti ospiti ed è giunto l’avviso di sfratto… Dove non arriva il capitale pulito si presenta quello sporco. La cosiddetta agromafia. Sempre laggiù, nascosti dai nostri occhi e dai nostri cuori, si sversano i rifiuti tossici che l’Occidente non può smaltire. La puzza a chi puzza…

Chi ha fame vende. Anzi regala. L’Etiopia ha il 46 per cento della popolazione a rischio fame. E’ la prima a negoziare cessioni ai prezzi ridicoli che conosciamo.

 

Seguono la Tanzania (il 44 per cento degli abitanti sono a rischio) e il Mali (il 30 per cento è in condizioni di “insicurezza alimentare”). Comprano i ricchi. Il Qatar, l’Arabia Saudita, la Cina, il Giappone, la Corea del Sud, anche l’India. E nelle transazioni, la piccola parte visibile e registrata della opaca frontiera coloniale, sono considerate terre inutilizzate quelle coltivate a pascolo.

 

Il presidente del Kenya, volendo un porto sul suo mare, ha ceduto al Qatar, che si è offerto di costruirglielo, 40mila ettari di terreno con tutto dentro. Nel pacco confezionato c’erano circa 150 pastori e pescatori. Che si arrangiassero pure!

 

L’Africa ha bisogno di acqua, di grano, di pascoli anzitutto. Noi paesi ricchi invece abbiamo bisogno di biocombustibile. Olio di palma, oppure jatropha, la pianta che - lavorata - permette di sfamare la sete dei grandi mezzi meccanici. E l’Africa è una riserva meravigliosa. In Africa parecchie società italiane si sono date da fare: il gruppo Tozzi possiede 50mila ettari, altrettanti la Nuova Iniziativa Industriale. 26mila ettari sono della Senathonol, una joint-venture italosenegalese controllata al 51 per cento da un gruppo italiano.

 

Le rose sulle nostre tavole, e quelle che distribuiscono i migranti a mazzetti, vengono dall’Etiopia e si riversano nel mondo intero. Belle e profumate, rosse o bianche. Recise a braccia. Lavoratori diligenti, disponibili a infilarsi nelle serre anche con quaranta gradi. E pure fortunati perchè hanno un lavoro. Il loro salario? Sessanta centesimi al giorno.

 

fonte: raiawadunia.com


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