di Lorenzo Zamponi

"Sono fatti loro, a me non interessa",commenta con un sorriso beffardo passandosi eloquentemente l’indice sotto il mento uno dei più ferventi e politicamente preparati attivisti “No Dal Molin”, se gli si chiede un commento sulla crisi di governo, scoppiata il giorno prima. Effettivamente, visto dal presidio permanente contro la nuova base americana, quello che sta avvenendo a Roma pare un gioco piuttosto distante. Una rappresentazione mediata dalla televisione, un reality show che giorno dopo giorno diventa sempre meno interessante per chi da popolo si rende conto di essere diventato pubblico. Cinque giorni dopo la grande manifestazione del 17 febbraio i comitati per il no alla base erano in viale della Pace, davanti alla caserma Ederle. Trecento persone occupavano l’intera strada, esattamente di fronte al cancello della base americana, e battono rumorosamente su pentole, tamburi, coperchi, qualsiasi cosa che dia loro la possibilità di farsi sentire.

di Fabrizio Casari

Succede in Italia. Succede che il 17 Febbraio del 2003, a Milano, nel corso di una delle puntate del serial “War of terror”, ventisei agenti della CIA sequestrano un Imam della moschea di Viale Jenner, Abu Omar. Lo sequestrano per poterlo espatriare a forza in Egitto, dove potranno liberamente torturarlo. Lo fanno con la complicità di un settore dei servizi segreti italiani, che in una stravagante interpretazione della teoria della "doppia obbedienza", invece di operare per la salvaguardia della legalità italiana, preferiscono adeguare l’Italia alla legalità degli Usa. Succede poi che, dopo averlo imprigionato e torturato, Abu Omar, dopo quattro anni di carcere e di torture, torni libero, prima in Egitto, poi in Italia. Succede anche che dei giudici milanesi, evidentemente ancora pervicacemente allineati alla giurisprudenza italiana, aprono una inchiesta, come ordinato dal Codice, che prevede l’obbligatorietà dell’azione penale. Le indagini giungono alla richiesta d’incriminazione di uomini del Sisde e degli agenti CIA che hanno partecipato al sequestro, alla cattura e alla deportazione di Abu Omar. A questo punto, però, le cose cominciano a prendere una piega particolare..

di Elena G. Polidori

Adesso l'Unione ha un nuovo programma: sopravvivere quel tanto che basta a riscrivere le regole del gioco. I numeri che ieri al Senato (162 i favorevoli, grazie a Follini e Pallaro) hanno ridato la fiducia al governo Prodi dimostrano ancora una volta che ormai la legislatura si avvia sulla strada di una lenta agonia e che l'unico, importante, sforzo politico sarà profuso nella riforma della legge elettorale, quell'emergenza condivisa anche da un centrodestra allo sfascio e spaventato dall'idea di ripresentarsi con grande anticipo alle urne sotto l'egida della “porcata” firmata da Calderoli. Lo stesso Prodi è stato chiaro: "Il compito del governo su alcuni punti può dirsi concluso, adesso si tratta di ridare potere di scelta ai cittadini". Forse non si parlerà di nient'altro da qui ai prossimi mesi. Ed ogni questione urgente sarà derubricata alla ricerca spasmodica di un consenso ampio su un progetto di riforma (probabilmente su modello tedesco) che tenga conto di tutte le esigenze in campo, soprattutto quelle dei piccoli partiti che temono l'introduzione di sbarramenti che li cancellerebbero per sempre dal quadro politico italiano. Del dodecalogo di Prodi, quindi, resterà ben poco da poter portare avanti senza scosse.

di Daniele John Angrisani

E' così finalmente il presidente Napolitano ha sciolto la riserva ed inviato di nuovo il governo Prodi alle Camere per la fiducia e la verifica dell'esistenza della maggioranza di centrosinistra, soprattutto al Senato. Dopo l'approvazione dei 12 punti programmatici da parte dell'intera Unione e dopo le dichiarazioni di Follini, che si è detto pronto a votare per il governo Prodi, Napolitano non aveva altra scelta che rinviare questo governo alle Camere. Che fosse questo alla fine il risultato della crisi di governo, lo si poteva comunque desumere sin dall'inizio, quando il presidente della Repubblica ha deciso di mantenere la riserva sulle dimissioni di Prodi, invece di accettarle tout court come ci si sarebbe potuto attendere in casi del genere. Ma, sebbene la crisi sia stata formalmente risolta con questa decisione, i nodi rimangono sempre aperti ed è molto difficile essere ottimisti sulla durata futura di questo governo, in special modo ragionando su un'ottica di medio-lungo periodo. Vediamo ora perchè.

di Elena G. Polidori

Gli è sempre piaciuto a Marco Follini parlare attraverso le massime, sfoderare proverbi, risolvere astutamente situazioni difficili e domande scomode con le battute e i giochi di parole. Stavolta, la frase con cui verrà incorniciato il suo “trasformismo” in nome dello spostamento al centro della barra di comando del governo (con conseguente sepoltura eterna per i “Dico”) riassume tutta la volontà dell’Harry Potter della politica italiana di essere protagonista, e non solo comprimario, della costruzione di un nuovo centrosinistra che dia al paese una stabilità e un respiro che guardi oltre la contingenza del momento. Così voterà la fiducia a Prodi, “perché votare con Diliberto – ecco la frase che suggella l’idea - non è meno imbarazzante che votare con Calderoli”. Democristiani si nasce. Lo si diventa pure, ma ci vuole un robusto dna moderato per svelare, in un momento come questo, di avere in tasca un progetto politico che vuole smarcarsi dalla gogna del “votare senza essere aggrappato ai Diliberto e ai Calderoli” e trasformarsi, in prospettiva, un grande partito di centrosinistra da ancorare, nella sua ottica, più vicino possibile al centro.


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