di Giovanni Gnazzi

Oltre dieci milioni di italiani si sono recati alle urne per eleggere sette presidenti di province, circa 800 sindaci (tra i quali quelli di 26 capoluoghi di provincia) ed uno sconfinato numero di consiglieri. Un’affluenza ridotta rispetto alle consultazioni precedenti, che nel caso dell’elezione per i sette presidenti provinciali si è ulteriormente abbassata. Forse un segnale diretto di quanto questa sorta di limbo istituzionale tra regioni e comuni vada perdendo ogni giorno di più significato politico e, dunque, interesse elettorale. Nonostante la “spallata” auspicata da Berlusconi non ci sia stata, le trombe della Casa delle Libertà-Mediaset hanno cominciato a squillare. All’ormai consueto “avviso di sfratto per Prodi”, si sono aggiunti i non meno ripetitivi “governo delegittimato” che, senza ombra di vergogna in chi li pronuncia denotano ampiamente il sapere costituzionale della destra italiana. Il loro capo, che ha visto lo scandire dei suoi cinque anni perdendo ogni tipo di consultazione elettorale, locale, provinciale, regionale, europea e politica che fosse, per poi proseguire con quella referendaria (mai pago il cavaliere di essere disarcionato..) non pensò mai di dimettersi, né si dimise. Abbarbicato alla poltrona di Premier dalla quale dirigeva i suoi affari, non poteva permettersi di rimandare a lavorare quell’esercito di avvocati, tributaristi, giornalisti e tuttofare che aveva generosamente proposto come deputati in barba alla decenza del Paese. Ora, è consuetudine che chi governa paghi un prezzo nelle consultazioni intermedie. E se dalle urne esce sì un sostanziale ridimensionamento del centrosinistra, non s’intravede nemmeno un po’ un trionfo del centrodestra, che anzi perde città come L’Aquila, storica roccaforte, e Agrigento. A ben vedere, comunque, in assenza di risultati clamorosi dell’una e dell’altra parte, il dato più significativo è il voto al Nord, che sanziona duramente il governo e pone di nuovo, più che la questione settentrionale, il ruolo della Lega nord all’attenzione dello schieramento politico.

Ma sarebbe sciocco negare un significato politico al voto, che se non rappresenta un avviso di sfratto al governo, contiene indubitabilmente un segnale di delusione nei confronti dell’operato dell’esecutivo ed esprime, attraverso un aumento significativo dell’astensione, una disaffezione netta da quello che appare come un rito ormai inutile. Non è il centrodestra che vince, anzi, in termini assoluti in molti luoghi perde voti. E’ il centrosinistra che arretra, colpito dalla mancanza di risultati e affondato dall’astensionismo dei suoi elettori.

E uno degli allarmi proveniente dalla costante crescita astensionista è probabilmente legato alla percezione da parte di una quota del corpo elettorale che vede nell’esercizio del voto un rito stanco e svuotato da impegni vincolanti, dal momento che le indicazioni elettorali vengono triturate e quindi azzerate nel mercatino delle compatibilità che si ripresenta, di bianco vestita, a urne chiuse, pronta a svuotare completamente di significato il voto stesso e le indicazioni di cambiamento che contiene.

Il governo dovrà aprire un confronto serio al suo interno, si dice. Confronto certamente opportuno, ma che risulterebbe alla fine sterile se non si accompagnasse a quello con i settori sociali storicamente interlocutori privilegiati del centrosinistra. L’esito del voto al nord, infatti, dimostra come gli insediamenti operai e il lavoro dipendente più in generale siano assolutamente delusi dall’operato dell’esecutivo. Nel voto di un anno fa, infatti, emergevano con forza alcune aspettative che sono state, in larga parte, frustrate.

Quel record di affluenza alle urne, da parte degli elettori del centrosinistra, stava a significare non solo l’uscita dall’incubo berlusconiano che garantiva prosperità ai conti del presidente-proprietario e crisi nera per quelli pubblici, ma ci si attendevano alcuni segnali riformatori che sono svaniti nelle nebbie dei veti incrociati di poteri forti e micropartiti mastellian-folliniani.

Ci si attendeva l’abrogazione, o comunque il superamento, della famigerata legge 30, architettura legislativa della precarietà a vita. Ci si attendeva l’abrogazione della Bossi-Fini sull’immigrazione, della Fini-Giovanardi sulle droghe; Si attendeva una riforma del welfare che producesse ampliamento e razionalizzazione di spesa nell’accesso ai diritti sociali. Si chiedeva una riforma fiscale che colpisse evasione ed elusione per portare la fiscalità generale ai livelli necessari per la quadratura dei conti pubblici; si auspicava una diversa metodologia nei rapporti tra comunità locali e stato in occasione delle opere pubbliche.

Cosa è successo? Seppure sulle politiche dell’immigrazione passi avanti sono stati accennati e la Fini-Giovanardi, di fatto, vive in un limbo giuridico, la legge 30 non è stata toccata ed i precari sono rimasti tali, solo aumentati di numero. Persino la minacciata assunzione di quelli della P.A. si è rivelata una intenzione frustrata. Gli aumenti salariali ai lavoratori dipendenti nessuno li ha visti e fondi straordinari sul welfare nemmeno a parlarne. Tutto ciò nonostante una finanziaria da lacrime e sangue (tutte e due a carico dei lavoratori) che ha si, meritoriamente, riportato in un anno i conti pubblici in sesto, ma che alla fine ha visto come principale indirizzo dei flussi di spesa l’assegnazione di cinquemila miliardi di cuneo fiscale alle imprese.

Una politica monetarista di rigore verso gli italiani e generosa verso gli imprenditori, ancora una volta liberi da qualunque vincolo, felici d’incassare e ansiosi di sbraitare. Cosa attendersi dunque? Nemmeno le battaglie sui diritti civili, dai DICO alla legge sul testamento biologico si sono sostenute come si doveva, agnello sacrificale sull’altare del compromesso storico bonsai insito nella nascita del PD.

L’esito elettorale non offre avvisi di sfratto. Ma dall’astensione di chi aveva scelto il centrosinistra arriva un segnale di chiara presa di distanza da chi promette e non mantiene. Sarà bene che Prodi smetta di fare spallucce e decida una volta per tutte quale profilo politico debba avere il suo governo. Pensare di tirare a campare, come si sa, non è un strategia lungimirante.

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