di Sara Nicoli

Dal “ritorno” a Barbiana, la terra di Don Milani, alla candidatura a segretario del Partito Democratico il passo non è breve. Ma è un passo decisivo, quello della legittimazione di una storia, politica e sociale, che la nuova aggregazione politica di centro sinistra che nascerà in autunno non possiede e tenta disperatamente di acquistare sul campo a prezzi modici. Non si può leggere diversamente la visita del candidato unico Walter Veltroni a “uomo forte” del Pd, a braccetto con il suo probabilissimo vice, Dario Franceschini, sui luoghi che segnarono la nascita dell’unione tra il sentimento cattolico e i valori più forti del solidarismo sociale, Barbiana e Don Milani, appunto, destinati – a questo punto –a diventare “radici”di chi non le ha più e forse non le potrà avere in seguito. Ma la visita di Veltroni a Barbiana ha significati più profondi della semplice “scesa in campo” di un Veltroni, passato da “eterno secondo” delle grandi occasioni di leadership, ad essere finalmente davanti all’agognata svolta. L’investitura mediatica del prossimo leader del Pd, avvenuta addirittura prima del suo “sì” formale alla segreteria, ha chiaramente messo in evidenza l’inutilità di scelte democratiche che potrebbero scaturire dalle sbandierate “primarie” fortemente volute dallo stesso Romano Prodi. Il gioco, insomma, in politica non cambia mai. E’ sempre la “nomenklatura” che sceglie, la base serve solo a portare acqua al mulino di chi decide per tutti. Messaggio che non è sfuggito neppure alla cosiddetta “area ulivista” della Margherita del prossimo Pd, palesemente irritata dalla scelta di Franceschini.

Le parole di Franco Monaco sull’investitura “a tavolino” non hanno lasciato adito a dubbi: “Un vicesegretario già designato mentre gli elettori ancora non hanno eletto il segretario non ci pare sia una scelta che concorre a imprimere quel segno di novità, unità e coinvolgimento dei cittadini di cui ha bisogno il Pd''.

E, sempre dall'area ulivista, la critica si è spostata verso l'atteggiamento eccessivamente interventista di Marini nella vicenda. ''Dal numero due dello Stato - è stato osservato da più parti - ci si aspetterebbe un comportamento meno politicante e più alto''. Gli ulivisti, quindi, ne fanno una questione di metodo, di regole, di democrazia. Ma non è certo un problema solo loro. E’ una questione di sistema, che ancora una volta si ripropone e si rigenera in barba ad ogni allarmante segnale di scollamento dell’elettorato dalla politica.

In ogni caso a questo punto la competizione da qui al 14 ottobre parrebbe spostarsi più che altro sulle liste collegate al candidato segretario. Con il rischio, paventato da alcuni, che possa trasformarsi in un sanguinoso confronto tra correnti. ''Se andiamo verso una conta per “correnti” - osserva il ministro prodiano Giulio Santagata - tutti coperti dietro all'unanime indicazione del leader, si verificherà che questo leader, invece di avere una forte capacità di indirizzo e scelta, diventa di nuovo prigioniero dell'esigenza di mediazione''.

Ma non é della stessa opinione il ministro Rosy Bindi: ''Il trionfo delle correnti - argomenta – s’impedisce con la competizione delle liste. Per me va bene un'unica lista nazionale, purché frutto di autocandidature e con il voto di preferenza. Oppure tante liste in competizione tra loro, che sostengano l'unico candidato e senza sbarramenti''. Insomma il dibattito sulle regole é ancora tutto aperto mentre il ministro per le Politiche della Famiglia si dice ''assolutamente'' pronta a scendere in campo. ''Spero mi sia data almeno la possibilità di fare una lista''.

Bindi potrebbe anche scegliere di scendere in campo solo in alcune zone “forti” come la Toscana e il Veneto. E, sempre in Veneto, anche il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Enrico Letta, ha avuto un giro di consultazioni per decidere sulla sua eventuale scesa in campo. Appare difficile, invece, che a correre ci possa essere anche il ministro Pierluigi Bersani. Chi gli ha potuto parlare spiega che l'esponente diessino ha delle perplessità a mettersi in gioco rischiando di ottenere come unico risultato quello di indebolire Veltroni, sostenuto tra l'altro dalla stessa area (dalemiani e mariniani) che avrebbe appoggiato lui.

Fin qui, insomma, lo scenario, un “già visto” polveroso e desueto che ha lo scopo, stavolta, di portare avanti l’icona arruffata del nulla politico, di un uomo come Veltroni che ha reso la melassa “da Che Guevara a Madre Teresa” un qualcosa di politicamente appetibile, al punto da considerarla adatta a costituire la guida dell’ossatura ideale del Partito Democratico. La “balena rosa”, dunque, nasce su questo: vecchi schemi di divisione del potere tra pochi e sogni di possibili commistioni tra opposti, tra Dio e il socialismo per un popolo che, appunto, continua a sognare l’impossibile, almeno in politica. Ma, appunto: non era un film già visto?

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