di Rosa Ana De Santis

La Consulta ha affossato un pezzo importante del pacchetto sicurezza del governo. Per i giudici della Corte Costituzionale, l’immigrato che non dovesse ottemperare all’ordine di allontanamento per condizioni d’indigenza, non potrà essere perseguito. S’incrina così l’architettura del reato di clandestinità, diventato dogma preliminare e fondante di un’autentica persecuzione per gli stranieri presenti sul territorio nazionale.

A rivolgersi alla Suprema Corte era stato il Tribunale di Voghera, che chiedeva una corretta interpretazione sul caso di una donna impossibilitata per estrema indigenza a lasciare l’Italia. Se l’osservanza al precetto - dichiarano ora i giudici della Corte - è “inesigibile” per impedimenti soggettivi e oggettivi, non possono scattare gli inasprimenti repressivi che il governo Berlusconi ha proposto.

La sentenza è importante e, azzerando l’aggravante della clandestinità, è destinata a sollevare un ripensamento profondo e sistematico del pacchetto sicurezza e della modalità con cui il governo ha approcciato la questione degli immigrati e della loro regolarizzazione. Un modo “miope” - come l’Europa ci ha rimproverato in più occasioni - oltre che ingiusto rispetto al contributo importante che il lavoro degli stranieri ha portato nelle tasche dell’ economia italiana.

Ci ha pensato il presidente della Repubblica a ricordarlo nella Giornata Nazionale dei Migranti, ribadendo il valore imprescindibile dell’integrazione e la necessità di attrezzarsi a sostenerla e a gestirla. Non ad evitarla come certa politica xenofoba, avallata dall’esecutivo, ha provato a fare in tutti i modi.

L’Italia è già, nei fatti, paese d’immigrati. Lo è nei fatti, ma non sulla carta delle legge o sui tavoli istituzionali. Lavoratori, ragazzi e bambini nelle scuole, imprenditori, acquirenti di case e gestori di esercizi commerciali, sono immigrati. La rimozione culturale con cui gli italiani rispondono è un segnale preoccupante che ci tiene lontani dai traguardi importanti di paesi come la Gran Bretagna (ad esempio) dove gli stranieri hanno pagato un 37% di tasse in più rispetto ai servizi pubblici di cui hanno beneficiato. In uno scenario di paesi industrializzati la cui popolazione cresce poco, quasi zero come in Italia, rifiutare l’apertura all’immigrazione equivale ad un suicidio economico, oltre che culturale.

Ma il nostro è il paese in cui una scuola come la Pisacane di Roma, la più multietnica della Capitale perché 8 bambini su dieci sono figli di stranieri, diventa un caso mediatico e viene evitata dalle famiglie italiane alla stregua di un ghetto, mentre da un’altra parte la scuola di Adro sostituisce il tricolore con i simboli presi a prestito dal Carroccio. Difficile vedere in queste reazioni segnali di evoluzione o di apertura. Ma anche questa volta i giudici saranno “comunisti incalliti”, la loro sentenza una “mossa politica” e gli italiani la stessa “brava gente” di sempre.

La sensazione è che ora l’attenzione e l’energia del Cavaliere e del suo cda di governo siano spostate altrove. Lontano dalla popolazione, a maggior ragione da quella straniera. L’Italia è intrappolata nel walzer dei corteggiamenti e nel salto della quaglia degli onorevoli indecisi. La politica è ripiegata su se stessa, tutto il Paese lo è.

Gli stranieri rimangano sulle gru o nei cantieri. Del resto nulla si fa, da molto tempo, tantomeno con la finta meritocrazia della Gelmini, per impedire che i cervelli italiani vadano a fare scoperte scientifiche altrove, che lascino i nostri laboratori vuoti, le nostre aule deserte.

Un paese che chiude le porte all’immigrazione e che non ferma l’emorragia della propria emigrazione è un paese che vuole morire. E questo, purtroppo, non è ancora un reato, ma un meritato epilogo per aver scelto gli uomini e le donne della “libertà”.

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