di Mariavittoria Orsolato

La legge è uguale per tutti e se si compiono dei reati tutti sono tenuti a risponderne, indipendentemente dal fatto che siano il Capo del Governo o i ministri, perché il principio della parità di trattamento rispetto alla giustizia è un principio supremo, inderogabile e squisitamente costituzionale. Tra i quattro referendum quello sul legittimo impedimento è sicuramente il più politico: dopo la clamorosa débâcle della maggioranza alle amministrative, la vittoria dei SI sulla scheda di colore verde chiaro potrebbe rappresentare il vero colpo di grazia all’agonizzante Esecutivo Berlusconi.

Il quarto quesito del referendum abrogativo dei prossimi 12 e 13 giugno si pone infatti l’obiettivo di eliminare i privilegi contenuti nella legge ad personam che vorrebbe sottrarre Berlusconi dal giudizio della magistratura per i reati che gli sono contestati e che nulla hanno a che vedere con lo svolgimento delle funzioni di Presidente del Consiglio. Le imputazioni che hanno coinvolto il premier sono state commesse in veste indubbiamente non istituzionale e sono la naturale conseguenza del conflitto d’interessi che da 17 anni caratterizza la sua vita politica.

Nel caso sui costi gonfiati dei diritti Mediatrade e della frode fiscale Mediaset, Silvio Berlusconi è imputato in quanto azionista di maggioranza del gruppo Fininvest. Per quanto riguarda il cosiddetto Rubygate, sono tutti fin troppo a conoscenza dell’abuso di potere che il premier ha esercitato nei confronti della Questura di Milano e dello spavaldo aggiramento delle disposizioni del giudice minorile. Quanto al processo Mills, causa prima per cui il dispositivo del legittimo impedimento è stato escogitato - dopo il fallimento del lodo Alfano - il Presidente del Consiglio ha la certezza matematica di essere condannato, dal momento che il procedimento contro l’avvocato inglese ha già reso la sua sentenza, condannando l’ex consulente finanziario di Berlusconi per falsa testimonianza. Proprio quest’ultimo esempio dovrebbe far riflettere, dal momento che - caso probabilmente unico nel suo genere - abbiamo avuto una sentenza in cui è stato condannato il corrotto ma non il corruttore.

In questi 17 anni di berlusconismo, il cavaliere ha fatto approvare ben 37 leggi ad personam: dal decreto Biondi del 1994, che vieta la custodia cautelare per i reati contro la Pubblica Amministrazione, passando per i vari Lodi (Maccanico, Schifani e Alfano) tutti tesi alla sospensione dei processi contro il premier, per arrivare alle leggi “contra Sky”, confezionate su misura per abbattere la concorrenza televisiva del magnate australiano Rupert Murdoch. Trentasette porcate legislative - come le ha giustamente definite Marco Travaglio - che hanno monopolizzato le attività di Camera e Senato e che agli italiani sono costate ben 2,5 miliardi di euro in termini di ore lavorate dalle Commissioni.

Di per sé il dispositivo del legittimo impedimento è uno strumento giuridico presente in molti paesi e rappresenta una garanzia sacrosanta per gli imputati che, pur volendo essere presenti nelle aule giudiziarie, sono - citando l’articolo 420-ter del codice di procedura penale - nella “assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito o forza maggiore”. Il disegno di legge che è stato approvato il 3 febbraio scorso pur se decisamente ridimensionato dalla Consulta poco dopo, risulta palesemente incostituzionale nella misura in cui l’impedimento in questione è rappresentato unicamente dal ricoprire una carica istituzionale.

In applicazione del principio dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge sancito dall’articolo 3 della Carta, Berlusconi deve essere giudicato per i fatti che gli sono contestati e non può sottrarsi al giudizio della magistratura solo in virtù della sua posizione privilegiata. Legittimo impedimento, nella sua attuale accezione, non può quindi significare altro che illegittima impunità e in un momento politicamente e socialmente delicato come quello che l’Italia sta attraversando, non è più possibile rendere al Paese l’immagine di una politica come casta di intoccabili che spavaldamente se ne fregano delle norme solo grazie alla carica da essi ricoperta.

Se non avesse dovuto salvaguardare le sue aziende dai debiti, il cavaliere non sarebbe mai “sceso in campo” ed ora che la bolla berlusconiana è sul punto di implodere, sono già in molti ad abbandonare la nave della libertà come topi terrorizzati dall’acqua. Il 12 e 13 giugno ci si presenta l’occasione per liberare definitivamente il Paese da questo regimetto che ci ha ammorbato per quasi un ventennio e il raggiungimento del quorum è ormai un imperativo morale per tanti. Certo, descrivere l’appuntamento referendario come se fosse prettamente politico potrebbe risultare in una certa misura controproducente, ma di fatto gli italiani hanno per la prima volta la possibilità di affossare una legislatura attraverso un referendum.

Il re è nudo da tempo e nel caso in cui il quorum venisse raggiunto le implicazioni a livello di alleanze (o puntelli che dir si voglia) porterebbero presto o tardi ad una crisi di Governo. Un esecutivo tenuto in piedi dai soli responsabili è pura fantascienza e, dopo la batosta alle amministrative, la Lega sembra sempre più convinta che Berlusconi sia soltanto una zavorra. Anche gli industriali capitanati da Emma Marcegaglia sembrano sul piede di guerra e dalla banca d’Italia il governatore Draghi mette all’indice una politica economica che ha saputo solo tagliare tanto e male.

Questa sedicesima legislatura ha rappresentato un fallimento su tutti i fronti e in fondo lo sa bene anche il Presidente del Consiglio che, dopo aver indebolito e reso sterile il Parlamento, adesso prova anche a scippare agli italiani la possibilità di esprimersi sul ritorno al nucleare, l’acqua pubblica e il legittimo impedimento. Una democrazia che teme gli elettori non può più dirsi democrazia, per questo è importante recarsi in massa alle urne ed esprimere il proprio parere. Come cantava il buon Giorgio Gaber “libertà è partecipazione” e non, come parodiava Corrado Guzzanti e come ci hanno mostrato in questi 17 anni, “fare un po’ come ce pare”.

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