In un centrosinistra ridotto come Troia dopo il passaggio degli achei, s’annuncia l’avvento di Carlo Calenda. Quando la polvere della disfatta elettorale non si era ancora posata, il ministro dello Sviluppo Economico (dovremmo dire “uscente”, ma non c’è un governo “entrante”) ha spiazzato amici e nemici con un contropiede niente male: si è iscritto al Partito Democratico.

 

 

Il gesto ha riscosso grandi apprezzamenti, del tipo: “Che coraggio, in un momento del genere”. Ma ha sollevato anche qualche domanda, del tipo: “Perché dopo la catastrofe e non prima? Perché proprio in un momento del genere?”.

 

La risposta più ovvia è che, nel frattempo, qualcosa è andato storto. Con ogni probabilità, prima delle elezioni Calenda puntava ad accreditarsi come presidente del Consiglio in un governo Pd-Forza Italia. Del resto, il Rosatellum bis era stato concepito proprio per favorire una maggioranza renzian-berlusconiana e in uno scenario del genere l’attuale ministro dello Sviluppo sarebbe stato il candidato perfetto per Palazzo Chigi. Il suo curriculum parla chiaro: ha governato con la sinistra, ma non è mai stato di sinistra.

 

Per intenderci, il primo mentore di Calenda fu Luca Cordero di Montezemolo - non esattamente Enrico Berlinguer - che lo portò prima in Ferrari, poi in Confindustria, poi ancora in Ntv. Il salto in politica avvenne con la Fondazione Italia Futura, sempre di Montezemolo, da cui il nostro si trasferì nell’ormai sciolta Scelta civica di Mario Monti. Nel 2013 si candidò e non venne eletto, ma fu ripescato come viceministro dello Sviluppo Economico nel governo Letta. La promozione a ministro arrivò nel 2016, sotto il governo Renzi, quando Federica Guidi (ricordate la “sguattera del Guatemala”?) fu costretta alle dimissioni dallo scandalo Tempa Rossa. 

 

Da quando siede sulla poltrona più importante del ministero di via Veneto, Calenda è cambiato molto. Fino a poco tempo fa, non aveva nulla da ridire sulle delocalizzazioni che falciano posti di lavoro (ad esempio quella di Alstom Power Italia, del gruppo General Electric, che ha licenziato 140 persone a Sesto San Giovanni). Poi però, di colpo, si è trasformato nel paladino degli operai di Ilva, Alcoa ed Embraco, che hanno avuto la fortuna di rischiare il posto durante la campagna elettorale.

 

Questa trasformazione rientrava nel piano per la scalata alla guida del governo. Ma ora che gli elettori hanno rovesciato la tavola apparecchiata, che intenzioni ha Calenda? A quanto pare, continua a puntare il mirino verso l’alto. Il “coraggioso” tesseramento è stato caldeggiato da Paolo Gentiloni, che insieme ad altri maggiorenti del Pd e a vari renziani in fase di abiura punta sul carisma del ministro per invertire il processo di autodistruzione in casa dem.

 

A domanda diretta, Calenda nega di puntare al vertice del Nazareno: “Considererei poco serio - scrive su Twitter - fare il segretario di un partito di cui ho preso 3 giorni fa la tessera”. Eppure, vista l’indole del personaggio, è difficile bersi la storia di un’iscrizione legata a ragioni idali, patriottiche, del tutto estranee a velleità di carriera.

 

In ogni caso, se prima o poi Calenda riuscirà davvero a guidare il Pd, non sarà verso quel riscatto della sinistra che milioni di italiani attendono da anni. O meglio: forse il riscatto ci sarà, perché con il pendolo elettorale non è mai detta l’ultima parola.

 

Della sinistra, invece, non rimarrà nemmeno una lontana eco. E ci ritroveremo allora con un’area liberal-progressista egemonizzata da una forza genuinamente di centro, epurata da ogni velleità socialista ed esplicitamente lontana dai valori del Pse (che già di Sinistra ha davvero poco).

 

A quel punto sarà compiuta la trasformazione del Pd nell’En Marche all’italiana, una metamorfosi che molti profetizzano (o auspicano) da anni. Solo che, contro ogni aspettativa, il condottiero alla guida delle truppe potrebbe non essere di Rignano.     

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