"Perché la Francia può portare il debito al 2,8 in rapporto al PIL mentre noi dovremmo restare sotto l’1,6?" La domanda che pone il Vicepremier Di Maio, seppure retorica - nel senso che suggerisce implicitamente la risposta - ha una sua piena legittimità. In termini di principio, certo, e anche sotto il profilo del diritto di ogni singolo stato membro della UE a decidere il proprio equilibrio finanziario purché stia nei parametri previsti dal Trattato di Maastricht, ovvero entro il 3%. Di Maio pone un problema che c’è mentre i soloni tifosi del rigore e della sottomissione che insorgono dovrebbero avere il buongusto di tacere.

 

La risposta al quesito che pone Di Maio è multipla e riguarda sia la sostenibilità di un tale coefficiente sui mercati che l’autorevolezza ed affidabilità politica di Roma nel contesto dell’Unione Europea. Ci sono insomma due aspetti che rendono un’affermazione di principio inutile sul piano politico: il peso sui mercati e quello nella UE. Si è accettata la follia del pareggio in Bilancio in Costituzione e del Fiscal Compact con il quale Bruxelles governa l’Italia. In un harakiri fantozziano è stato votato il dominio della Commissione Europea sui nostri conti, con ciò esonerando il Parlamento dalle scelte fondamentali di indirizzo del Bilancio del Paese.

 

 

Nessuno poteva pensare che tagliare il ramo su cui eravamo seduti, cioè la nostra sovranità nazionale, potesse essere scelta senza conseguenze. Ritenere che la sovranità nazionale vada rivendicata con le politiche securitarie sui migranti e non sui fondamentali della nostra nazione, è quello che distingue Salvini da un esponente politico.

 

Ciò che rende l’Unione Europea un luogo simile alla fattoria degli animali di orwelliana memoria, dove tutti sono uguali ma qualcuno è più uguale degli altri, è il peso politico, militare e finanziario dei singoli stati. Non bisogna nascondersi dietro a un dito: sono elementi strettamente intrecciati e poco importa, qui, stabilire in dettaglio natura e conseguenze di questo assemblaggio. Quello che conta, ad oggi, è che i fondamentali dell’economia sono diversi e che il peso politico schiaccia ogni ipotesi di allineamento paritario, ammesso che questo fosse possibile anche solo in teoria.

 

Benché i detentori del debito pubblico italiano e di quello francese siano un elemento che gioca a favore del nostro fardello più che di quello d’Oltralpe, al netto contabile l’Italia ha un debito pubblico al 130% del PIL e la Francia al 98%. L’Italia, poi, ha ormai ceduto - proprio ai francesi, in molti casi – le più grandi aziende di diversi comparti, dalle telecomunicazioni alle banche, dall’agroalimentare alla moda e la sua economia, a differenza di quella francese, non presenta nemmeno a vederla in controluce una dinamica di ripresa del ciclo, tutt’altro.

 

Dunque, i mercati (che non sono un’entità astratta come la dipingono i turbo liberisti d’accatto, bensì un ring globale dove le speculazioni e le rapine si muovono in livrea) non tarderebbero a colpirci, perché la fiducia degli investitori sarebbe messa in crisi da politiche finanziarie che aumentassero ulteriormente l’esposizione debitoria; la scarsa fiducia nella nostra ripresa diverrebbe inaffidabilità, con tutto quello che sul mercato azionario comporta. Fin troppo semplice prevedere che lo spread tra i nostri titoli di Stato e i Bund tedeschi si amplierebbe con conseguenze serie anche sul mercato del credito e, quindi, sulla liquidità e sostenibilità delle piccole e medie imprese.

 

Del resto l’Italia ha bisogno di finanziare il suo debito attraverso la vendita di BTP e di sostenere la sua economia attraverso le performance borsistiche dei suoi titoli pubblici e di quelli privati con indirizzo strategico nei rispettivi comparti.

 

Più in generale verremmo immediatamente attaccati dalle agenzie di rating, autentica truffa e fuffa al servizio delle banche, che sono alla fine le entità che decidono delle sorti finanziarie dei paesi. Le banche, infatti, insieme ai fondi pensione ed alle altre strutture finanziarie speculative, sono i cosiddetti “investitori istituzionali”, ovvero la stragrande maggioranza di movimentazione di capitali sul mercato borsistico.

 

Dunque non abbiamo altra scelta che accettare i diktat europei? No, ma non è questo il terreno su cui sfidare Bruxelles; altre sarebbero le scelte profonde da fare per mettere in discussione le politiche del rigore. Certo è, però, che un governo ed una classe dirigente che si differenziano solo sulla entità delle mance (80 euro versus le pensioni di cittadinanza) dimostrano che ci troviamo di fronte a politiche che non intervengono sul sistema economico generale, risultando piuttosto destinate al consenso elettorale.

 

Per far ripartire l’economia italiana serve una cultura dell’intervento pubblico. Il debito pubblico italiano è la vera zavorra della nostra economia. Per ricondurlo ad un rapporto meno sbilanciato si dovrebbe operare in due direzioni: aumento del PIL da una parte e riduzione del debito dall’altra.

 

Per aumentare il PIL (che già di per sé ridurrebbe il differenziale con il debito) serve un piano straordinario di intervento pubblico nell’economia. Il riassetto idrogeologico dell’Italia, ad esempio, potrebbe essere messo in opera attraverso una nuova IRI, che genererebbe centinaia di migliaia di posti di lavoro, una ripresa della domanda interna, un aiuto alla fiscalità generale sia attraverso un maggiore gettito che nella riduzione degli interventi straordinari di riassetto che ogni anno si rendono necessari e che, messi insieme, costano molto di più che la realizzazione di un piano nazionale di riassetto. A questo non può che affiancarsi una vera riforma del welfare, a cominciare dalla separazione tra assistenza e previdenza ed alla cancellazione della Legge Fornero. Ma non nel modo che indica Salvini, che peggiora addirittura gli effetti perniciosi e criminali sui pensionati della legge vigente.

 

La riduzione secca del debito, invece, può essere affrontata non con ulteriori strette sulla spesa corrente (ormai al lumicino) ma attraverso il recupero dell’evasione e dell’elusione fiscale e contributiva. Servono politiche espansive destinate all’aumento della domanda e del consumo interno ed alla ricostruzione del ciclo tra produzione, distribuzione e consumi, che genera un spirale positiva fatta di posti di lavoro e dunque capacità di spesa e anche contribuzione alla fiscalità generale.

 

Vanno affiancate da politiche di spietata repressione dell’evasione, che colpisce due volte: la prima privando il sistema-paese delle risorse che gli spetterebbero, la seconda costruendo un apartheid sociale tra chi per la natura del suo lavoro non può evadere e chi invece può. Insieme a questo, una razionalizzazione della spesa, un diverso indirizzo dei suoi flussi in ragione della sostenibilità economica di prospettiva e una riconsiderazione delle sue priorità strategiche, fornirebbero un ulteriore aiuto al bilanciamento dei nostri conti.

 

Questi e molti altri possono essere gli interventi destinati a ristrutturare profondamente un sistema socio-economico che si allinea a quello politico per insensatezza. Disponiamo di risorse straordinarie che vengono annullate nell’assenza di governance, nell’incapacità di produrre pensiero politico all’altezza. Avremmo bisogno di una politica economica, di una idea delle relazioni industriali, di un progetto di società e di una classe dirigente in grado di pensare ed agire in nome dell’interesse nazionale.

 

Abbiamo necessità di ricostruire una sinistra che non abbia la destra liberale come orizzonte culturale e il darwinismo come modello di società. La finta battaglia tra governo e opposizione, dove la vera gara è a peggiorare quanto fatto da chi c’era prima, è il segno di come la nostra classe politica, orfana della prima Repubblica e figlia degenere della seconda, abbia scelto d’inaugurare la terza scegliendo come simbolo la furbizia di Tafazzi.

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