Mancano ancora 4 miliardi e mezzo per risolvere il rebus della manovra. La trattativa che l’Italia sta portando avanti con la Commissione europea per evitare di subire una procedura d’infrazione va avanti a singhiozzi. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, e il numero uno del Tesoro, Giovanni Tria, smaniano per arrivare a un compromesso, anche perché in questa direzione preme Confindustria.

 

A zavorrare il negoziato c’è però l’incertezza sulle intenzioni dei due vicepremier: Matteo Salvini e Luigi Di Maio si rendono conto che schivare la procedura sarebbe anche nel loro interesse, ma al contempo fanno di tutto per cedere il meno possibile. Il leader leghista a difesa delle risorse per la controriforma delle pensioni, il capo grillino in trincea per il reddito di cittadinanza. Risultato: Conte non sa quasi mai con certezza cosa rispondere alle proposte di Bruxelles. E a ogni giro di giostra occorre sondare la disponibilità dei due veri capi del Governo.

 

In realtà, la soluzione del rebus non sembra più impossibile come qualche settimana fa. Non solo perché Di Maio e Salvini hanno smesso di considerare il deficit-Pil 2019 al 2,4% come una soglia intoccabile, ma anche perché dall’Europa è arrivata un’apertura. Regole alla mano, per fare il suo dovere l’Italia dovrebbe mantenere il disavanzo dell’anno prossimo entro l’1,6% del Pil, che corrisponde a un calo del deficit strutturale (al netto cioè del ciclo economico e delle misure una tantum) pari allo 0,1% del Pil. In questo modo il debito pubblico scenderebbe, anche se di poco (questa correzione comprende già uno sconto di circa 9 miliardi rispetto a quello che le norme europee dure e pure prevedrebbero per un Paese indebitato come l’Italia).

 

 

Bruxelles può salire senza patemi all’1,7%, visto che nei precedenti accordi si era tenuta più bassa proprio per avere uno 0,1% da utilizzare in un’eventuale trattativa. A questo margine si aggiunge un altro 0,2% di flessibilità aggiuntiva per il crollo del Ponte Morandi e il dissesto idrogeologico, tema su cui il governo italiano presenterà a breve un piano d’investimenti. Infine, il numero uno della Commissione Ue, Jean Claude Juncker, ha messo sul tavolo un ulteriore 0,5%, portando l’ultima offerta dell’Europa all’1,95%. Se l’anno prossimo l’Italia manterrà il deficit-Pil sotto questa percentuale, la procedura d’infrazione sarà disinnescata.

 

Dall’altra parte della barricata, però, fare i conti non è così semplice. Il disavanzo al 2,4% previsto nella nota di aggiornamento al Def imponeva già grossi sacrifici rispetto ai programmi elettorali: risorse dimezzate per il reddito di cittadinanza, metamorfosi della flat tax in una semplice estensione del regime dei minimi per le partite Iva, paletti e penalizzazioni per chi andrà in pensione con quota 100.

 

Di conseguenza, è chiaro che per scendere in modo significativo dal 2,4% non bastano revisioni di spesa e progetti più o meno fantascientifici sulle privatizzazioni. Bisogna rimettere mano alle misure bandiera.  

 

I tecnici del Tesoro che lavorano al pacchetto pensioni della manovra ritengono che l’anno prossimo la spesa per quota 100 sarà inferiore a cinque miliardi, contro i quasi sette stanziati a bilancio. Di fronte a questi dati, sembra che Salvini abbia accettato di cedere una quota delle risorse destinate alla controriforma previdenziale. Tuttavia, il leader leghista non è ancora arrivato a digerire per intero il maxi taglio chiesto da via XX settembre, che su questo fronte vuole ridurre la spesa di 2,5 miliardi, pari allo 0,15% del Pil.

 

Allo stesso tempo Di Maio dovrebbe rinunciare a una fetta di risorse per il reddito di cittadinanza compresa fra i 500 milioni e il miliardo di euro, all’incirca un altro 0,05% del Pil.

 

Con questi sacrifici l’Italia ridurrebbe il deficit-Pil 2019 dal 2,4 al 2,2%. Per evitare la procedura d’infrazione servirebbe quindi un ulteriore taglio dello 0,25%, pari quattro miliardi e mezzo. Il Governo ha meno di un mese per trovare questi soldi senza sfasciare le misure centrali della manovra – troppo importanti in vista delle elezioni europee di maggio – e soprattutto senza mandare in pezzi la maggioranza. Forse è questo il vero rebus di Natale.

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