Intervistata da Maria Latella su Sky TG24, sulla Casa internazionale delle donne, Virginia Raggi ha snocciolato bugie. Ancora una volta ha mentito sapendo di mentire. Alcune perle della sindaca? “Esser morosi non è femminista”; "Abbiamo lottato per avere gli stessi diritti, non per avere privilegi;“Essere donne non vuol dire avere diritto di scavalcare leggi e regole";“Vogliamo trovare una transazione, un accordo? Facciamolo, ma non c’è stato nulla, pretendono di continuare a non pagare nulla”. “Il debito è di 900mila euro, ma dovrebbero pagare molto di più”. Nulla di più falso.

 

Come stanno veramente le cose l’hanno spiegato le avvocate Giuliana Alberti e Maria Rosaria Russo Valentini, insieme alla Presidente Francesca Koch, che in una conferenza stampa alla Casa internazionale delle donne hanno illustrato i termini del ricorso al TAR presentato dopo la revoca  da parte del Comune della concessione della convenzione che consente alla Casa di gestire il Buon Pastore.

 

La questione è nota. Il movimento femminista romano, dopo lo sfratto dello storico palazzo di via del Governo Vecchio, ha avuto fin dal 1983 la concessione della convenzione da parte del Comune di Roma per gestire gli spazi del Buon Pastore in via della Lungara. Negli anni successivi, pur con vicende alterne, è stata sempre riconfermata la destinazione di questi locali all’attuazione del “Progetto Casa Internazionale delle Donne”. 

 

Nel 1996 è tra le opere previste dal Giubileo. Quando nel 2001 vengono consegnate le chiavi della Casa Internazionale delle Donne, perfettamente  ristrutturata, viene altresì consegnato un nuovo e inedito problema: quello della sostenibilità economica della gestione degli spazi. Il piano di fattibilità economica elaborato nella fase iniziale non riesce a garantire la copertura delle spese e la convenzione tra Comune e Casa (divenuta “Associazione Consorzio Casa Internazionale delle Donne” cui aderiscono circa 50 associazioni) va avanti dentro a un grande equivoco, che le avvocate hanno argomentato proprio nel ricorso al TAR. Quale?

 

L’immobile Buon Pastore è “patrimonio indisponibile” del Comune, in quanto destinato ad “uso di pubblica utilità”; quindi non è patrimonio disponibile alla sua alienazione per fare cassa, nemmeno per risanare il bilancio. Inoltre, è lo stesso regolamento del Comune di Roma del 1983 a prevedere la destinazione del Buon Pastore alla Casa internazionale delle donne, riconoscendo  la funzione sociale delle attività svolte  e poi, nel 1992, un Decreto ministeriale stanzia fondi per ristrutturare il Buon Pastore ai fini della destinazione alla Casa.

 

Eppure, ai primi di agosto, una Determina dirigenziale del Comune di Roma ha disposto la revoca della concessione alla Casa, considerandolo “atto dovuto” per mancato pagamento. La  Casa è stata così sfrattata con un atto di un funzionario, come se si trattasse di  qualsiasi altro inquilino moroso, di ordinario sfratto di locazione morosa. La sindaca dovrebbe ricordare che la convenzione con la Casa non può essere equiparata ad una semplice concessione di immobile, né questo può essere oggetto di normale affitto, perché si tratta appunto di concessione di servizi socialmente utili e perché l’erogazione di questi servizi di pubblica utilità resi alla comunità, vengono effettuati in forma di sussidiarietà, visto che il Comune non paga e non rimborsa nulla. L’immobile, in questo senso, rappresenta un “elemento strumentale” della concessione e il canone non può equivalere ad un corrispettivo “canone di affitto”. Che valore hanno i servizi della Casa che il Comune dovrebbe offrire e che non offre? Il moroso, qui, è il Campidoglio.

 

Del resto, la stessa Corte dei Conti, nel 2017, ha sancito che non si configura danno erariale quando spazi in convenzione offrono servizi con finalità sociali, se questi servizi dovrebbero comunque essere svolti dall’istituzione pubblica che invece non offre. E il Comune di Roma, non solo non provvede ai servizi, ma non paga e non rimborsa nulla alla Casa che invece li offre gratuitamente alle donne.  

 

E non solo il Buon Pastore da anni non costa nulla al Comune per la gestione dei servizi che utilizzano le donne della città di Roma, ma non spende nemmeno per il mantenimento dello stabile, perché tutto è pagato con soldi che arrivano dai progetti presentati dalla Casa e dalla Regione. Le bollette, la pulizie, le attività, i servizi, le lavoratrici impiegate nella Casa, al Comune non costano una lira. La Casa e i suoi servizi, per il Comune hanno costo zero.

 

Ma il Campidoglio, invece di provvedere alla sua inadempienza, colpevolizza chi svolge l’opera e continua a dichiarare la Casa  morosa, sostenendo che in 15 anni ha accumulato un debito su un canone di circa 11 mila euro al mese. Da dove viene questa cifra? Si basa sul prezzo di mercato di un palazzo il cui affitto arriverebbe ipoteticamente a 900 mila euro l’anno, che viene scontato a 90mila euro l’anno (questo per la sindaca sarebbe ovviamente il privilegio).

 

La Casa è riuscita a pagarlo solo in parte, cioè circa 600 mila euro, quindi non si tratta di pagamento nullo (come invece insiste a dichiarare la sindaca). E comunque, nonostante il canone non fosse stato pagato per intero, nel 2010 il Comune di Roma ha riconfermato la concessione alla Casa proprio per la valenza sociale delle attività svolte.

 

D’altra parte la Casa ha sempre ribadito che gli inadempimenti contestati sono stati e sono ampiamente compensati dal valore economico dei servizi resi - come anche la perizia  dell’università di Pisa presentata nel ricorso al TAR  ha valutato - e dai costi interamente sostenuti  dalla Casa per la manutenzione ordinaria e straordinaria del Buon Pastore, un prezioso edifico del ‘600 che resta a disposizione di tutta la città.

 

Al di là dell’assurdità amministrativa che vede un funzionario del Comune e non il Consiglio o la Giunta decidere, resta la volontà politica di procedere. Infatti neppure l’offerta da parte della Casa di una transazione economica, come avviene normalmente tra “creditori” e “debitori” per trovare un accordo che risolva una volta per tutte il tema del debito pregresso, ha avuto seguito. L’offerta della Casa è quella di pagare il giusto, mettendo quindi a valore tutto il lavoro svolto in questi anni, ma la sindaca non ha risposto. Altro che “non vogliono pagare”!

 

C’è quindi materia seria per trattare. Ma in questi mesi gli incontri fissati sono slittati, non c’è stata mai risposta da parte delle assessore competenti e nessun accordo è all’orizzonte, nonostante le bugie della sindaca. Prova che alla sindaca non interessa ripristinare canoni e servizi, ma solo cacciare le donne. Non a caso ad oggi esiste solo la revoca della concessione, quindi la Casa è sotto sfratto ed ha dovuto ricorrere al TAR per chiederne l’annullamento della revoca della convenzione.

 

E’ poi successo anche qualcosa di peggio. Prima dell’estate, con un blitz in Aula Giulio Cesare, tra le proteste di tutte le associazioni è stata votata la cosiddetta “mozione Guerrini” (consigliera 5 Stelle famosa alle cronache per la sua battaglia fondamentalista contro i “ragazzi di piazza San Cosimato”). La linea 5 Stelle è stata indicata chiaramente: il “Progetto Casa internazionale delle donne è fallito, occorre cambiare, sarà il Comune a coordinare le attività a favore delle donne, privilegiando le periferie, mettendo a bando i servizi.” Ovvio, senza investire un Euro. 

 

Nel merito del lavoro svolto dalla Casa la consigliera Guerini non sa molto e quel poco che sa non lo capisce. Infatti, mentre tutte le raccomandazioni europee e internazionali riconoscono l’approccio di genere come un indicatore di efficacia dei servizi dedicati alle donne, considerare le attività svolte dalle associazioni della Casa come servizi “neutri”, è colpevole ignoranza. Non è in discussione l’efficacia delle prestazioni svolte: si vuole solo azzerare l’autonomia politica della Casa, il suo valore storico,  simbolico e politico, attribuendo all’istituzione comunale il controllo e il governo delle attività (che mai ha svolto e che mai svolgerebbe), rimuovendo tutta l’esperienza e le pratiche del movimento femminista.

 

Mettere a bando tutte le attività svolte dalla Casa, dai servizi contro la violenza alle donne a quelli di consulenza per la salute sessuale e riproduttiva, fino agli sportelli di promozione di empowerment delle donne migranti, significa ipotizzare che possano essere svolte da chiunque, basta che l’offerta economica sia la più bassa, anche magari dai movimenti pro-life o dalle associazioni femminili neofasciste che non vedono l’ora di mettere le grinfie su un presidio di laicità e di femminismo in un città papalina.

 

L’operazione è truffa a 5 Stelle. In nome della legalità e della trasparenza, della lotta ai privilegi, si sta compiendo un’operazione di normalizzazione sociale, contro le esperienze di auto-organizzazione, siano delle donne o dei giovani che, da spazi “liberati” sono invece la vera garanzia contro l’illegalità criminale. Allora,  la Casa delle donne è “morosa”, Lucha y siesta (centro antiviolenza) è “occupante”,  le proiezioni  di film nelle piazze sono "abusive"; solo Casa Pound pare legale. Un'idea bizzarra delle democrazia e della partecipazione. D’altra parte per i 5 Stelle essa è solo quella del web, che dovrebbe persino sostituire quella rappresentativa costituzionalmente prevista. Non importa se è quella che magari decide i candidati al Parlamento solo con qualche click, magari sulla piattaforma Rosseau.

 

Mentre si acclama il cambiamento, si  riutilizzano categorie di pensiero retrive. Sembra che i 5 Stelle siano influenzati dai loro alleati di governo, i quali associano ormai quotidianamente, con spregiudicatezza e naturalezza, la misoginia, il sessismo, l’antifemminismo, il razzismo che spalmati da Salvini e dai suoi non suscitano indignazione e proteste di nessuno dei 5 Stelle.

 

L’attacco alla Casa non è quindi questione economica ma politica. Dietro c’è un’idea di società, di democrazia, ci sono politiche e pensiero che ciancia di modernità e avvenirismo mentre propone Medioevo e misticismo. Un cambiamento promesso diventato reazione per restare attaccati alle poltrone.

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