La “secessione dei ricchi” sembra sventata, ma il rischio di un pastrocchio rimane dietro l’angolo. Il ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, ha raggiunto un accordo con le Regioni sulla riforma delle autonomie, al centro di un’informativa oggi in Consiglio dei ministri. In un primo momento, il ministro aveva parlato d’inserire il provvedimento nella manovra. L’obiettivo – non dichiarato ma evidente – era affrettare i tempi per aiutare Stefano Bonaccini, candidato del Pd alle regionali dell’Emilia Romagna (una delle tre Regioni ad aver chiesto la riforma), in programma per il 26 gennaio. Poi però Boccia è stato costretto alla marcia indietro: sconfessato dal suo stesso partito, il ministro ha detto che la decisione spetta al governo e che l’iter “sarà probabilmente quello di un disegno di legge collegato alla legge di bilancio”. Stando alle ultime indiscrezioni, tuttavia, i partiti avrebbero deciso di scartare anche questa ipotesi: un percorso alternativo sarà deciso forse mercoledì prossimo, quando si terrà un nuovo vertice di maggioranza sull’autonomia.

Fin qui, si sa che la bozza di accordo ha ottenuto un consenso ampio fra i governatori: dai dem Vincenzo De Luca (Campania) e Michele Emiliano (Puglia), ai leghisti Luca Zaia (Veneto) e Attilio Fontana (Lombardia). Boccia ritiene di aver disinnescato l’incubo che si andava profilando l’anno scorso nelle trattative fra il governo gialloverde e l’accoppiata Veneto-Lombardia, che chiedono autonomia su 23 materie, contro le 15 dell’Emilia. In quel negoziato la Lega recitava un doppio ruolo, con l’ex ministro Stefani da una parte e i due potenti governatori del Nord dall’altra. Per come erano intese dal Carroccio, le “autonomie rafforzate” avrebbero cancellato il potere redistributivo dello Stato centrale, differenziando per legge il livello dei servizi pubblici offerti sul territorio nazionale e stabilendo così che esistono cittadini di serie A (al Nord), di serie B (al Centro) e di serie C (al Sud).

Per vitare tutto questo, la nuova intesa prevede che – oltre agli accordi con le singole Regioni, da recepire in altrettante leggi – il Parlamento vari anche una legge quadro per fissare criteri e obiettivi generali dell’operazione. La bozza del provvedimento, formata da soli due articoli, impone che siano stabiliti i “livelli essenziali di prestazioni” (Lep), e i “fabbisogni standard”. I primi sono i servizi che devono essere offerti senza differenze in tutto il Paese, come sanità, trasporto pubblico locale e formazione professionale (ma non la scuola: quella rimane di competenza statale). I secondi sono le risorse necessarie in ciascuna Regione per garantire quegli stessi servizi. Si salva dunque il principio della perequazione, anche se ancora non è chiaro in che modo le Regioni con minore capacità fiscale dovrebbero continuare a incassare risorse da quelle più ricche. In tema d’infrastrutture, invece, sarà lo Stato centrale a istituire un fondo da tre miliardi per garantire uniformità di sviluppo a tutti i territori.

Il progetto di Boccia prevede che Lep e fabbisogni vengano individuati entro un anno da un commissario governativo. Non è una prospettiva granché realistica, visto che li stiamo aspettando dal 2001, ossia dai tempi della riforma del Titolo V della Costituzione. Cosa succederebbe allora se fallissimo anche stavolta? La prima bozza della legge quadro prevedeva che, in assenza di Lep e fabbisogni, si sarebbe fatto ricorso alla cosiddetta “spesa storica”. Una vera iattura, perché con questo criterio non si garantirebbe affatto uniformità di servizi su tutto il territorio nazionale. Boccia però assicura che questa evenienza è stata cancellata nell’ultima versione del testo: “I Lep saranno varati in 12 mesi, altrimenti il trasferimento di funzioni non partirà”. Traduzione: se entro il prossimo anno non faremo quello che non siamo riusciti a fare negli ultimi 18 anni, non cambierà nulla. A parte il fatto che le elezioni in Emilia Romagna saranno passate.

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