Lo aveva annunciato e lo ha fatto. Il ministro della Pubblica amministrazione – Lorenzo Fioramonti, del Movimento 5 Stelle – ha rassegnato le dimissioni quasi in sordina, mentre tutto il Paese (compreso il resto del Governo) era impegnato a festeggiare il Natale. Lo ha fatto con una lettera al presidente del Consiglio, in cui lamenta l’insufficienza dei fondi per la scuola stanziati nella legge di Bilancio 2020 appena varata dal Parlamento.

Con questo gesto Fioramonti dà prova di coerenza. Dal primo giorno di mandato aveva detto che per l’istruzione servivano almeno tre miliardi di euro e che avrebbe lasciato l’incarico se non fossero arrivati. Così è stato: “Nella manovra - ha spiegato il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri - abbiamo destinato due miliardi alla scuola. Avremmo voluto fare di più, ma lo faremo nella prossima legge di bilancio”. Quest’anno perciò i fondi saranno inferiori del 33% rispetto al fabbisogno stimato da Fioramonti, che quindi ha dato seguito alla promessa e se n’è andato. 

Ora, nel Paese che ha fatto del poltronismo uno sport olimpico, di per sé parlare di dimissioni è cosa rara. Tanto più quando si tratta di incarichi da ministro, che portano con sé una gran quantità di soldi, potere e relazioni. Chi mai rinuncerebbe a tutto questo (di propria iniziativa) per tornare nell’anonimato dei privati cittadini?

 

Senza voler fare dietrologia spiccia, il gesto di Fioramonti va comunque inquadrato in un’ottica politica. Da tempo il ministro dell’Istruzione dava segnali di mal sopportare la permanenza non solo nel governo, ma anche nel Movimento 5 Stelle. Per questo molti credono che le dimissioni siano solo il primo atto di una strategia più ampia, che punterebbe a una nuova fronda nelle fila grilline. Stavolta però l’addio al M5S non sarebbe un salto estemporaneo di singoli parlamentari in direzione della Lega o del gruppo misto, ma un esodo organizzato e abbastanza importante da consentire la creazione di gruppi autonomi e filo-Conte. Il tutto, naturalmente, proprio sotto la regia di Fioramonti.

Nascerebbe così in Parlamento il germe di una nuova formazione politica che avrebbe come guida l’attuale presidente del Consiglio. Sarebbe in effetti una mossa astuta: permetterebbe a Conte di correre nuovamente per Palazzo Chigi senza innescare l’implosione di M5S e Pd, entrambi in crisi di leadership e incapaci di esprimere un candidato premier in grado di sfidare Salvini alle prossime elezioni.

Di certo, l’uomo di punta non può essere Luigi Di Maio, capo politico sempre più discusso e decadente, reo di aver più che dimezzato il bacino di voti del Movimento in poco più di un anno e mezzo.

Sull’altra sponda della maggioranza ci sarebbe il segretario dem, Nicola Zingaretti, che però sembra il primo a non credere nelle proprie possibilità di successo. Come altro dobbiamo interpretare l’intervista al Corriere della Sera in cui il numero uno del Pd definisce Conte “un punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste”? Per inciso, parlava dello stesso Conte che ha firmato i due decreti sicurezza partoriti da Salvini. Non proprio un manifesto di progressismo.

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