Ci sono voluti 13 mesi, ma alla fine il governo Conte 2 ha corretto le misure più vergognose del Conte 1. Con il provvedimento varato la settimana scorsa dal Consiglio dei ministri, l’Italia si lascia finalmente alle spalle i decreti Salvini sull’immigrazione, che oltre a essere disumani e a violare una serie di norme internazionali rendevano anche il nostro Paese meno sicuro (a dispetto del nome, “decreti sicurezza”, partorito dalla Lega).

La cancellazione delle misure salviniane era una colonna del patto di governo giallorosso siglato nell’estate del 2019, ma solo con la vittoria alle amministrative del mese scorso il Pd ha trovato la forza di esigere dall’alleato quanto promesso. Del resto, la questione era e resta imbarazzante per il Movimento 5 Stelle come per Giuseppe Conte, che sui decreti Salvini avevano messo faccia e firma.

 

Per rendere la marcia indietro digeribile agli stomaci grillini, il governo ha inserito nei nuovi provvedimenti anche tre misure che con l’immigrazione non hanno nulla a che fare: un Daspo urbano dai locali pubblici e d’intrattenimento per chi è stato denunciato o condannato per atti di violenza davanti a discoteche, pub o simili (sulla scia del caso Willy); l’aumento delle pene per il reato di rissa (fino a 6 anni); e nuove norme per oscurare i siti pericolosi del dark web.

I pentastellati hanno cercato di catalizzare l’attenzione su questi interventi - tutt’altro che marginali - ma il cuore del nuovo decreto sicurezza è chiaramente un altro: la fine dell’era dei porti chiusi. In sostanza, le Ong non potranno più essere punite con la confisca delle navi, né con multe milionarie. Sarà possibile solo una sanzione da 10 a 50mila euro per chi violerà un eventuale stop per motivi di sicurezza. In generale, però, alle imbarcazioni impegnate in attività di soccorso non potrà più essere impedito l’ingresso nelle acque italiane.

Inoltre - nel rispetto della Costituzione, del diritto internazionale e delle raccomandazioni del presidente Mattarella - il nuovo provvedimento chiarisce che non si possono rimpatriare o respingere persone che nel loro Paese  rischiano di subire violenze, torture o altri tipi di trattamenti inumani. Chi si trova in queste condizioni ma non ha diritto allo status di rifugiato (che presuppone l’esistenza di una persecuzione individuale) potrà beneficiare di una “protezione speciale”, una sorta di riedizione della “protezione umanitaria” abolita dai decreti Salvini.

La terza novità è un altro ritorno al passato e riguarda il modello di accoglienza, che sarà affidato a piccoli centri diffusi sul territorio anziché ai casermoni-ghetto tanto amati dai leghisti. Saranno offerti corsi di studio non solo ai rifugiati, ma anche ai richiedenti asilo, che i provvedimenti salviniani avevano tagliato fuori. Tornano anche l’iscrizione all’anagrafe e la possibilità di convertire diversi tipi di protezione in permessi di lavoro.

Tutto perfetto? Non proprio. Il governo giallorosso lascia irrisolto uno dei problemi più gravi legati al salvataggio di vite nel Mediterraneo. Le navi delle Ong continuano a dover seguire “le indicazioni del competente centro di coordinamento dei soccorsi in mare”. Detta così, sembra ragionevole; sennonché, spesso il “competente centro” è quello di Tripoli, che potrebbe ordinare alle imbarcazioni di riportare i migranti indietro, verso quei centri di detenzione dove i diritti umani vengono calpestati ogni giorno. Com’è ovvio, nessuna Ong obbedirà mai a una richiesta simile, anche perché nemmeno le Nazioni Unite classificano la Libia come “porto sicuro”.

Per quanto riguarda la concessione della cittadinanza italiana, Salvini aveva raddoppiato i tempi della procedura, portandoli da due a quattro anni. In molti si aspettavano una correzione di rotta con il nuovo decreto, che però non ripristina nemmeno la situazione precedente, limitandosi ad accorciare l’iter da quattro a tre anni. Attenzione: stiamo parlando dei tempi di attesa per le persone che hanno già diritto a chiedere la cittadinanza, ossia gli stranieri che - rispettando una serie di requisiti - vivono stabilmente nel nostro Paese da almeno dieci anni, oppure ci sono nati e cresciuti fino a diventare maggiorenni.

Infine, un’altra questione delicatissima. I richiedenti asilo vivono in Italia per anni prima di ottenere una risposta e, nel frattempo, molti di loro trovano un posto di lavoro regolare. Se alla fine la richiesta viene respinta, queste persone diventano immigrati irregolari, ma quasi mai vengono espulse. L’unico risultato è che da avere un contratto passano  a lavorare in nero, il che danneggia tutti, anche le casse dello Stato. Purtroppo, per i casi di questo tipo - che sono decine di migliaia - nemmeno il nuovo decreto ha trovato una soluzione.

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