Mentre con la bocca parliamo di soluzione diplomatica, di cessate il fuoco e di pace “credibile”, con le mani continuiamo a mandare armi in Ucraina. Venerdì è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il terzo decreto interministeriale per spedire a Kiev “materiale bellico”, che stavolta sarà anche più pesante di quello inviato finora. Non più solo strumenti di difesa, quindi, con tanti saluti alla retorica della “guerra per la pace” diffusa dai media mainstream.

 

C’è però qualcosa di profondamente antidemocratico in tutto questo. Innanzitutto, la maggioranza degli italiani - come dimostrano tutti i sondaggi - è contraria all’invio di armi in Ucraina: governo e Parlamento, quindi, ignorano l’orientamento del Paese e non ipotizzano nemmeno di consultare l’opinione pubblica via referendum (che in questo caso, Costituzione alla mano, si potrebbe usare eccome, perché l’argomento in questione non riguarda la ratifica di trattati internazionali).

In secondo luogo, è scandaloso che i cittadini siano tenuti all’oscuro di quale sia il materiale bellico di cui stiamo rifornendo Battaglione Azov e soci. La lista infatti è secretata: secondo alcune indiscrezioni, dovrebbe contenere obici, mortai da 120 millimetri, cingolati M130 per il trasporto di truppe e veicoli Lince con blindatura antimine; non dovrebbero rientrare nel pacco regalo, invece, droni e carri armati, ma lo Stato non ritiene che sia sua responsabilità rassicurare il Paese su un argomento così delicato. Perché “l’Italia ripudia la guerra” solo fino a quando Washington non le ordina il contrario.

In questo scenario, si manifesta nel modo più evidente tutta l’inanità dei partiti italiani. La Lega, putiniana di portafoglio e pacifista per panico, è sparita dai radar. Il Partito Democratico nicchia, si nasconde sul fondale sabbioso, ma alla fine non ha mai il coraggio di contraddire gli ordini della Casa Bianca. Il Movimento 5 Stelle, invece, vive un dissidio che mette in luce tutte le sue contraddizioni e la sua mancanza di credibilità.

La settimana scorsa Mario Turco, vicepresidente del M5S, ha annunciato il rilancio di Giuseppe Conte, il cui obiettivo è portare al voto delle Camere una mozione che dica basta all’invio di armi dopo il terzo decreto. “Stiamo valutando le forme tecniche per arrivare a un voto in Parlamento - ha detto Turco - e una finestra potrebbe coincidere con il voto della risoluzione a fine maggio”, quando Draghi riferirà prima del Consiglio europeo, “ma vorremmo arrivare a un voto prima, il 19 maggio”, in corrispondenza con l’informativa del premier sull’Ucraina. Insomma, la linea contiana è che l’Italia e l’Europa debbano concentrarsi sulla soluzione diplomatica.

Di per sé, sarebbe una posizione condivisibile. Peccato che arrivi dal partito che esprime, fra gli altri, il ministro degli Esteri: uno che in teoria (ma non in pratica) qualcosa dovrebbe contare nella definizione della politica internazionale del governo, o quantomeno dovrebbe dimettersi in caso di dissenso. L’ineffabile Luigino Di Maio, invece, a parole è in accordo con Conte, ma nella pratica firma quello che gli mettono davanti e dice quello che gli scrivono.

Ora, malgrado la caduta libera nei sondaggi, il Movimento 5 Stelle è pur sempre la forza politica più rappresentata in Parlamento; quindi, basterebbe che uno solo fra Lega e Pd decida di appoggiare la mozione pentastellata per far cadere il governo. Sembra però che nessuno abbia il coraggio di spingersi a tanto. Matteo Salvini perché, in caso di elezioni, verrebbe seppellito da Giorgia Meloni. Ed Enrico Letta perché, nonostante il chiaro intento di tornare a Palazzo Chigi, non ha le spalle abbastanza larghe per contraddire la linea dettata dagli Usa e condivisa da Ue, Nato e G7.

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