di Elena Ferrara

C’è, nel mondo, un campo praticamente sconosciuto che molti, sembra, non hanno voglia di indagare e scoperchiare. Le culture dominanti glissano e il disordine mondiale favorisce l’oblio. Ma la realtà è sotto gli occhi. E a viverla in modo tragico sono quei bambini privati del diritto all'istruzione, perché “colpevoli” di essere nati in Paesi colpiti da guerre o che ancora recano le devastanti ferite dei conflitti armati. Ed è questo – ricordiamolo – lo specchio apocalittico dell’oggi. Facciamo parlare i fatti tenendo conto che nei prossimi giorni questi problemi dovrebbero essere affrontati (finalmente) nel meeting annuale della Banca Mondiale e in una conferenza sull’educazione generale. Al centro di questi due importanti incontri internazionali ci sarà il tema dell’alfabetizzazione dei giovani e dei giovanissimi. Una questione scottante, poco nota. Ecco i fatti e i dati. Sono 77 milioni nel mondo i bambini che non vanno a scuola. E 39 milioni di essi – ovvero più della metà del totale – vive in uno dei 18 paesi ancora in guerra o nei 10 paesi considerati “fragili” e reduci da conflitti - dove 1 bambino su 3 non ha accesso all'istruzione primaria. Un dato ancora più preoccupante se si considera che nelle nazioni afflitte da guerre vive solo il 13% della popolazione mondiale. Ora le organizzazioni internazionali - in particolare Save the Children – hanno creato una lista di paesi in stato di guerra caratterizzati da disparità di reddito, una sorta di governance debole con profonde disuguaglianze sociali. Qui i paesi fragili in stato di guerra (CAFS) - classificati come paesi a basso reddito dalla Banca Mondiale – sono: Afghanistan, Angola, Burundi, Cambogia, Ciad, Colombia, Costa d’Avorio, Eritrea, Etiopia, Guinea, Haiti, Iraq, Liberia, Myanmar, Nepal, Nigeria, Pakistan, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Repubblica Democratica del Congo, Ruanda, Sierra Leone, Somalia, Sri Lanka, Sudan, Timor, Uganda e Zimbabwe. Fanno eccezione – sempre secondo Save the Children - paesi come Angola, Colombia, Iraq, Repubblica del Congo e Sri Lanka che sono classificati a reddito medio-basso.

Ma quello che emerge da una visione globale è che le nazioni più ricche del mondo stanno facendo troppo poco per riparare ai danni e alle devastanti conseguenze delle guerre, non contribuendo in modo determinante a garantire il diritto all'istruzione a 39 milioni di bambini e bambine che ne sono esclusi perché vivono in 28 paesi tuttora colpiti da guerre o, appunto, reduci da conflitti. Per noi un c’è un dato incredibile (dovremmo dire vergognoso): l’Italia è in coda alla lista dei donatori istituzionali per quanto riguarda il contributo all'istruzione primaria.

Tutto questo si registra nel quadro di precedenti impegni che non sono stati rispettati e che sono elusi ancor oggi. Ecco, quindi, che i governi delle nazioni più ricche, benché abbiano promesso solennemente di assicurare scuola e istruzione a tutti i bambini entro il 2015, stanno concentrando il loro aiuto solo sui paesi più stabili, trascurando quelli più bisognosi e che contano il numero maggiore di minori esclusi dalla scuola. Continuando di questo passo, l'obiettivo dell'educazione primaria universale non sarà raggiunto e milioni di bambine e bambini resteranno privi di un'istruzione, andando incontro ad un futuro incerto, di povertà e violenza.

In questa “classifica” l’Italia, quindi, dimostra una buona dose di insensibilità pur avendo contribuito in favore di bambini che vivono in zone di guerra. L’Italia non è sola, comunque, perché nonostante le passate promesse, 20 Governi su 22 non hanno destinato i finanziamenti necessari all'educazione nei Paesi in via di sviluppo. Non hanno cioè versato la cosiddetta “quota equa” (un parametro elaborato da Save the Children che consiste nella quota che ogni donatore dovrebbe ogni anno destinare all'educazione in rapporto al proprio Pil) volta al raggiungimento dell'educazione globale entro il 2015. E tutto questo avviene mentre si sviluppa notevolmente l’aiuto che viene alla campagna di alfabetizzazione dai governi dei Paesi Bassi, della Norvegia e Svezia. Sarebbero, comunque, necessari in totale 9 miliardi di dollari, ma al momento ne sono stati promessi solo 3…

Ci sono, sempre in questo contesto di allarme generale per la situazione degli aiuti all’infanzia, altri dati che evidenziano la gravità della situazione. È dimostrato, infatti, che l’educazione riduce la mortalità infantile, in quanto aumenta la capacità di resistenza da parte dei bambini al reclutamento forzato e allo sfruttamento - come la prostituzione – e consente inoltre di trasmettere conoscenze di importanza vitale, come quelle relative alle mine di terra e alla protezione contro l’Aids e altre malattie.
Ecco perché gli incontri ora annunciati – il meeting della Banca Mondiale e la conferenza sull’educazione generale - potrebbero fornire alcune risposte. Intanto a muoversi a livello globale è Save the Children che è la più grande organizzazione internazionale indipendente per la difesa e la promozione dei diritti dei bambini. Opera in oltre 100 paesi nel mondo con una rete di 27 organizzazioni nazionali e un ufficio di coordinamento internazionale: la International Save the Children Alliance. E’ nell’ambito di questa organizzazione che si sviluppano progetti che dovrebbero consentire miglioramenti sostenibili e di lungo periodo a beneficio dei bambini. Gli appelli che sono lanciati mettono in evidenza una piaga mondiale: ci sono 600 milioni di bambini (un quarto di tutti i bambini del mondo) che vivono in condizioni di assoluta povertà. Ogni anno 12 milioni di bambini al di sotto dei 5 anni muoiono per malattie di facile prevenzione. Oltre 16 milioni hanno perso la madre o entrambi i genitori a causa dell'AIDS. Circa 250 milioni lavorano, spesso in condizioni di pericolo e sfruttamento.

Risulta evidente che si fa ben poco per dare speranze ed opportunità. Prevale, purtroppo, una certa interpretazione – e gestione - della società caratterizzata dall’indifferenza di fronte a ogni azione, a ogni impulso, a ogni impegno, a ogni decisione.

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