di Rosa Ana De Santis

Le pagine della finanza internazionale raccontano di un mercato imprevedibile, imbavagliato da un ritmo ossessivo e fuori controllo che dagli USA all’Europa trascina le piazze degli affari in una perdita di oltre due punti e mezzo percentuali di tutti gli indici. Che sia il paventato crollo della finanza virtuale o dell’economia globale lo decreteranno i professionisti delle borse, ma che la discesa libera costellata di frecce e grafici in rosso sia un monito che va oltre la matematica dei profitti e delle perdite lo dice la storia della globalizzazione, diventata nell’abisso di un silenzio omertoso e tutto occidentale, la storia della tolleranza alla povertà; ovvero la storia della cattiva tolleranza. E ora che il sospetto entra in casa, ora che il sistema “perfetto” vacilla sempre più spesso, ripensare le categorie del nostro mercato e del pensiero forte che lo giustifica diventa necessario e sempre più doloroso. Forse il vincitore non vince più. La filosofia politica che dagli anni ’70, con la ripresa del modello contrattuale, ha denunciato la necessità di recuperare in sede di argomentazione pratica i concetti di eguaglianza e fraternità, ha annunciato inascoltata che la rimozione dell’uguaglianza avrebbe prima o poi rappresentato il crollo della democrazia, ancora di più in un contesto internazionale in cui i confini territoriali vengono scavalcati da chi lotta per vivere. In cui il transnazionale diviene la cartina geografica di un cosmopolitismo tutto da pensare e tutto da costruire.

Il pensiero politico neoliberale ha cercato di pensare una teoria della giustizia alternativa tanto al modello marxiano - soffocato dalla rimozione dell’etica - quanto a quello delle forme liberali più neutre, rimaste vuote sulle ghigliottine della rivoluzione francese. Ha tentato di recuperare l’errore fatale della nostra storia contemporanea - che ha consegnato l’uguaglianza agli altari della religione - alle iniziative solidaristiche dei “più buoni”, creando uno svuotamento progressivo dell’agorà pubblica, ridotta a mercato di mercanti e incentivando una pericolosa venerazione del sacrificio e della bontà che ha svuotato il senso della cittadinanza e della governance dall’imperativo categorico ineludibile per una democrazia moderna: il dovere regolativo e fattuale alla giustizia.

Il concetto di equità rappresenta il tentativo, non certamente il più coraggioso ma in certa misura di rottura, di uscire fuori dall’affermazione delle sole libertà; le stesse che hanno indotto il liberalismo a prestarsi alle versioni più ingestibili dello stato minimo, alla regole liberistiche più sfrenate, fatte di massimizzazione del profitto e di sola allocazione delle risorse, senza alcun riguardo a criteri di ordine distributivo. Di questo veleno si è nutrito il presunto scambio tra Nord e Sud del mondo, nato per ripetere intatti scenari di sfruttamento e servitù.

E’ la storia del feudo che si ripete, che con astuzia è uscito fuori dai confini curtensi, diventando nave carica di Africa da portare a servizio delle rapine dei conquistadores. E’ il feudo che si è spostato nelle Americhe catturando prede e convertendo terre. E’ la nostra storia di sempre, assolutamente riconoscibile e autoreferenziale, che oggi parla la lingua delle multinazionali e della manodopera a basso costo nei paesi in via di sviluppo. Potere e servitù : il fardello della nostra coscienza occidentale pronta ad entrare in fretta ,al primo sussurro di colpa, in confessionale.

Così la giustizia si è dissolta nella bontà predicata dalle chiese – spesso al servizio dei poveri ma sempre agli ordini dei potenti - e nelle opere di volontariato. E quella che sembra la vittoria del bene nasconde soltanto l’incompiutezza di un percorso storico, l’interruzione insana e miope delle nostre rivoluzioni di libertà. Quelle che avrebbero dovuto insegnare che l’eguaglianza non è soltanto un orpello aggiuntivo alla dialettica, ma una tensione essenziale e necessaria alla sopravvivenza della stessa democrazia.

Ed è questa assimilazione alle opere pie che oggi inibisce la diffusione sui grandi numeri di quelle che vengono definite forme di commercio e finanza alternative. Il sospetto che si tratti di buone iniziative parrocchiali è la trappola e l’autoinganno più riuscito, l’inibizione più seria a qualsiasi loro ampia sperimentazione, a qualsiasi misura di monitoraggio che ne verifichi le lacune e i successi. Perché pensare l’economia cosiddetta alternativa, che è invece null’altro che una gestione trasparente dei rapporti commerciali, significa pensare ad una finanza che consente un accesso al credito che non sconfina nell’usura, ad una gestione del risparmio e degli investimenti che incentiva il cittadino a vedere il valore morale della politica.

Perché allora serve la politica: quando interviene a curare il disagio e lo svantaggio sociale, per ripensare profondamente la propria storia e il proprio passato. E a cosa dovrebbe servire la politica se non ad interrompere le catene di morte che inchiodano donne e bambini a raccogliere caffé o the per meno di un dollaro? Servirebbe chiedere allo Stato predicatore delle colpe altrui se ha investito un centesimo delle proprie ricchezze sui conti di Banca Etica o anche solo dove e come ha investito. La banca che nel nostro paese, solo per fare uno dei tanti esempi, ha trasformato terre e proprietà sequestrate alla mafia in lavoro. E se solo volessimo diventare più coraggiosi potremmo guardare al caso del Bangladesh e al suo banchiere dei poveri. Caso emblematico sulla cui esportabilità si potranno sollevare obiezioni, ma la cui differenza con le speculazioni coloniali di tanta pseudo carità dalle Nazioni Unite al FMI non fatica ad essere evidente.

Perché non si può trascurare che un paese cosi tormentato ha vinto alcune sfide impossibili con il microcredito, con il finanziamento alle donne: le più povere, le invisibili. Perché questa storia è la sconfessione più scientifica dell’elemosina e la prova di dove possa arrivare l’economia con l’anima di una politica che non può prescindere mai dallo slancio morale e dall’attesa morale. Dove morale è il giusto e non il bene. Dove centrale non è dio, per venire alla propaganda italiana, ma le donne e gli uomini.

A questa sfida dovremmo attrezzare la teoria politica oggi: pensare e ripensare il giusto. Scommettere senza eccessi di speranza, investire sui limiti della antropologia senza disconoscerli. Senza chiedere di diventare santi né discepoli, ma cittadini che avvertano l’ingiustizia come ferita, vulnus della tradizione democratica di cui ci vantiamo nei manuali, nelle università, sotto i caschi blu. L’utopia è realistica se con questi occhi si guarda ai progetti che vivono attraverso la vendita dei prodotti equo-solidali, se si accettano le proposte di boicotaggio dei prodotti nati dalla morte degli schiavi del nostro tempo, se si crede con ostinazione che prima di buttare via una possibilità di economia giusta bisogna averla vissuta, creduta e insegnata.

Si dirà che sono piccoli segni, troppo piccoli per competere con il marketing dei loghi, con le luci e i lustrini dei nostri negozi. Certo, in un nord che con il suo 27% degli abitanti consuma l’80% delle risorse del pianeta, la giustizia distributiva è un’utopia. Scompaiono le botteghe del commercio equo nelle nostre strade quando raramente ci sono, e al più inteneriscono sotto le feste natalizie i cioccolatini al caffé prodotti dagli indios che rischiano di scomparire ammazzati.

Nulla di tanto violento quanto vedere il grande centro commerciale in mezzo a Kampala, capitale dell’Uganda, a un passo dai morti per fame e AIDS. Se ne sta li monumentale e deserto, abbandonato come un cimitero di guerra su cui è passata troppa storia e cancellata ogni memoria, a tre ore di strada da dove stanno raccogliendo le foglie di the. E’ il supermercato di casa del presidente Musuweni e della sua ristretta oligarchia di vassalli.

Sembra una cattedrale, dove tace ogni preghiera. Il mausoleo della nostra cattiva globalizzazione. Quella che si nutre di rimozione e amnesia della storia e delle idee. Quella che non ha imparato nulla dalle nostre rivoluzioni, quelle che vengono ancora combattute senza clamore da pochi testardi e ingenui che non aderiscono ai comizi, ma lavorano per ricordare a qualcuno dei consumatori meno distratti che la solidarietà non è un dovere, ma la giustizia si.

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