di Cinzia Frassi

Non è sufficiente attribuire un nome diverso alle cose per cambiarne la natura. Così, non è determinante identificare un lavoratore dipendente come “autonomo” quando egli non è effettivamente tale. Dieci anni ci sono voluti per arrivare ad una pronuncia della Cassazione sul caso dei lavoratori di un call center. Viene da chiedersi cosa avranno fatto nel frattempo, per ben dieci anni, le 27 centraliniste "autonome". La società Solidea sas di Padova operava nel settore pubblicitario ed aveva un call center nel quale lavoravano un certo numero di centraliniste, la maggior parte donne con mansioni di telefonista o segretaria. Nel lontano '98, con ricorso depositato il 10.03.1998, la società Solidea sas conviene in giudizio l'Inps davanti al Tribunale di Padova al fine di accertare la natura autonoma del rapporto di lavoro instaurato con 27 dipendenti "autonomi". L'Inps sosteneva la natura subordinata del rapporto di lavoro e conseguentemente chiedeva la condanna della società al pagamento di 524.345.553 delle vecchie lire per il mancato versamento dei contributi. Il Tribunale di Padova si pronuncia nel 2001, tre anni dopo, dichiarando che trattasi di un rapporto di lavoro di natura autonoma. L'Inps ricorre e la Corte di Appello di Venezia riforma parzialmente la sentenza di primo grado riconoscendo la natura di lavoratori subordinati a 15 dipendenti e condannando la società al pagamento dei contributi, delle somme aggiuntive e degli accessori quantificati dall'Istituto di Previdenza. Nel 2005 la società in questione viene condannata dalla Corte di Appello di Venezia a versare i contributi previdenziali alle centraliniste.

A parte ciò che si evince dalle motivazioni della sentenza circa la validità dei verbali ispettivi e del fatto che un lavoratore in piena ispezione si trovi a dover dichiarare esplicitamente la rivendicazione del rapporto di lavoro subordinato, risulta piuttosto difficile pensare che ciò sia senza ripercussioni. Per chi lavora sotto il palese ricatto della precarietà, che può sempre scivolare facilmente in disoccupazione, non è accettabile esporsi al rischio dichiarando la propria condizione lavorativa e sostanzialmente accusare il proprio datore di lavoro. Certo, se si tratta in realtà di un lavoratore autonomo in effetti è diverso. Oggi, a dieci anni di distanza, la sentenza della Cassazione da ragione ai precari. Una vittoria?

La pronuncia della Suprema Corte - sezione lavoro, sentenza n. 9812 - parla chiaro, pur ribadendo verità già consolidate da tempo nell’ordinamento giuridico italiano: "L’elemento decisivo che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato dal lavoro autonomo è l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro ed il conseguente inserimento del lavoratore in modo stabile ed esclusivo nell’organizzazione aziendale". Nonché, continua la sentenza, "l'assenza del rischio di impresa, la continuità della prestazione, l'obbligo di osservare un orario di lavoro, la cadenza e la forma della retribuzione, l'utilizzazione di strumenti di lavoro e lo svolgimento della prestazione in ambienti messi a disposizione dal datore di lavoro.

Quindi, in sostanza ci sono voluti dieci anni per stabilire che se un soggetto si reca ogni mattina in ufficio, se deve timbrare il cartellino ogni giorno, sottostare ad un datore di lavoro, avendo a disposizione gli strumenti di lavoro necessari, è un lavoratore dipendente. Bene.

Con l’uscita delle motivazioni della sentenza si registrano le prime dichiarazioni. Il coordinatore nazionale dei “Giovani per la Libertà” coglie l’occasione per sottolineare l’efficacia della Legge Biagi: "La sentenza infatti - aggiunge Pasquali - zittisce la sinistra che per anni ha diffuso l’equazione legge Biagi=precariato". L’ormai uscente ministro del Lavoro Cesare Damiano commenta la sentenza della Cassazione sottolineando l’importanza della pronuncia, ricorda che “già una prima circolare applicativa della Legge Biagi, del giugno 2006, chiariva la natura di lavoro subordinato e non autonomo in questo settore di attività, a fronte di un abuso di lavoro a progetto senza reale autonomia” e ricorda gli incentivi per la stabilizzazione di co.co.co e co.co.pro introdotti dal famoso decreto millepropoghe.

Ma il punto della questione è accertare la subordinazione in luogo dell’autonomia? In questo caso allora basterebbe cambiare qualche parola: se stabiliamo che, nonostante la subordinazione, l’orario di lavoro e il potere direttivo, un lavoratore è da qualificarsi come autonomo e che quindi deve scordarsi il pagamento dei contributi nonché un’assunzione come dio comanda, è fatta. Così anche se stabiliamo che il datore di lavoro può avvalersi della prestazione di persone senza diritti e costrette ad accettare un lavoro capestro.

E infine se stabiliamo che si può assumere di fatto un lavoratore fingendo sia un collaboratore autonomo introducendo la possibilità, unitamente ad incentivi a favore delle imprese, di stabilizzazione dei suddetti collaboratori? Troppo?

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