di Mario Braconi

Governo e Procura di Roma si muovono congiuntamente contro blasfemi e sporcaccioni: si conferma l’impressione che l’Italia sia preda di un clima in cui il moralismo più retrivo convive con una demenza scatenata. Un membro dell’esecutivo Berlusconi e i Pm di Roma, per una volta, sono d’accordo: i cittadini immorali inclini al sesso mercenario e alla blasfemia vanno puniti, possibilmente con la galera. Ma andiamo con ordine. La sala conferenze di Palazzo Chigi, con la sua miscela di kitsch, mercantile arroganza e pruderie piccolo borghese, costituisce il palcoscenico più consono possibile per le surreali dichiarazioni che il ministro Carfagna ha reso alla stampa lo scorso 10 settembre. Come noto, infatti, la riproduzione de “La Verità rivelata dal Tempo” del Tiepolo, che in modo involontariamente ironico è stata utilizzata per decorare lo sfondo del palco da cui parlano i ministri, mostra tra le altre figure una procace donna seminuda, cui uno zelante collaboratore di Berlusconi ha fatto coprire seno ed ombelico con un panneggio posticcio; interrogato in merito, l’apparatchick si è detto preoccupato che l’esposizione di un capezzolo “potesse urtare la suscettibilità di qualche telespettatore” (non “cittadino”, si badi, ma “telespettatore” ha detto). Ipocrisia e perbenismo dunque, che sono anche i “principi” informatori del disegno di legge “contro la prostituzione”. Il ddl firmato da Mara Carfagna, che il solitamente sobrio Times di Londra definisce impietosamente ex “topless model” e “ TV showgirl”, introduce nel sistema giudiziario italiano un nuovo reato: l’offerta e la fruizione di prestazioni sessuali a pagamento in luogo pubblico o aperto al pubblico, dunque prostitute e clienti “beccati” in strada verranno puniti con arresto e multe. E’ chiaro: per com’é stato disegnato, e sempre che sia possibile farlo funzionare, il provvedimento non inciderà in alcun modo sullo sfruttamento, la riduzione in schiavitù e la tratta di donne e di minorenni. Tenderà invece a modificare il modo in cui le prestazioni sessuali a pagamento verranno offerte e fruite: non più in strada, ma in alberghi, appartamenti, discoteche; al chiuso insomma. Del resto, il vero obiettivo della futura legge è proprio questo: ripulire le strade. Suonano pertanto sommamente ridicole nel loro vuoto trionfalismo le parole della Carfagna, che vuol far credere agli Italiani di aver dato uno “schiaffo durissimo” al racket.

Il Gruppo Abele di don Ciotti, nello stesso comunicato in cui boccia i provvedimenti del governo, sostiene che la prostituzione in strada, “pur pericolosa”, consente per lo meno un certo livello di controllo del fenomeno e la “raggiungibilità” delle persone che la praticano da parte delle forze dell’ordine e del volontariato. Se si avesse il coraggio di portare alle sue naturali conseguenze questo saggio ragionamento di riduzione del danno, si concluderebbe che l’unica strada possibile per la gestione del mercato del sesso è la sua legalizzazione. Ma da questo orecchio il ministro non ci sente: ai giornalisti che la incalzano risponde che obiettivo del governo “non è regolamentare il fenomeno, ma contrastarlo duramente”.

Il ragionamento del Ministro è tortuoso: pur partendo da premesse corrette, giunge a conclusioni illogiche: Carfagna, infatti, pur dichiarandosi “consapevole che questo fenomeno (la prostituzione) c’è, esiste, e che non si può debellare”, ritiene che la soluzione più logica non sia quella di conviverci nel modo più civile e meno socialmente dannoso, quanto piuttosto “contrastarlo rendendone più difficoltoso l’esercizio”. Non è ben chiaro quale beneficio si possa trarre da una guerra persa in partenza - a parte un ritorno di propaganda, buono al più per i poveri in spirito e i poco informati. Senza contare che, secondo chi ha potuto leggere il provvedimento, le sanzioni previste dal ddl non comporterebbero comunque l’arresto, al più una denuncia a piede libero. Cade così miseramente anche il mito dell’arresto delle prostitute, vagheggiato dalla neo-puritana eroina dei calendari da officina.

Proprio mentre si stava esaurendo l’eco delle farneticazioni del ministro delle Pari Opportunità, dalle agenzie giungeva la notizia della brillante iniziativa dei pm Racanelli, Colaiocco e del procuratore capo di Roma Giovanni Ferrara, i quali hanno aperto un fascicolo nei confronti di Sabina Guzzanti, “colpevole” di aver pronunciato una battuta “irriverente” avente ad oggetto il papa nel corso del “No-Cav Day” dello scorso 8 luglio. In Italia, infatti, a norma dell’art. 8 del Trattato del Laterano, siglato nel febbraio del 1929 tra il segretario di Stato vaticano e Mussolini, “le offese e le ingiurie pubbliche commesse nel territorio Italiano contro la persona del Sommo Pontefice con discorsi…sono punite come le offese e le ingiurie alla persona del Presidente della Repubblica”, cioè con la reclusione da uno a cinque anni.

Se non fosse abbastanza sconcertante apprendere che in pieno ventunesimo secolo, in un paese non (del tutto) teocratico, vige ancora una norma di questo genere, aggiungiamo che per questo tipo di “reato” i pm agiscono d’ufficio; insomma, non c’è bisogno che la persona offesa o qualcun altro sporga denuncia. Come se non bastasse, l’art. 313 del codice penale prevede che, per procedere contro il presunto colpevole, sia necessaria l’autorizzazione del Ministro della Giustizia. Si fa fatica a convivere con l’idea di un pubblico ministero che, in un paese devastato dalle mafie e dalla corruzione, spreca ore del suo tempo a vedere e rivedere i filmati di una manifestazione, per determinare se qualcuno degli oratori abbia mancato di rispetto al capo di una religione. E di un Ministro della Giustizia lacerato dal seguente, amletico, quesito: sostenere che il Papa andrà all’inferno, “tormentato da dei diavoloni frocioni attivissimi e non passivissimi” lede o no il prestigio e l’onore del capo della chiesa cattolica?

Per mettere le cose nella giusta prospettiva, e per abituarsi a non nutrire soverchie illusioni sulle possibilità di progresso del nostro paese, è comunque utile ricordare che il codice penale, emanato in periodo fascista, ma in gran parte ancora valido, prevede una fattispecie denominata “delitti contro il sentimento religioso” (articoli 402-406); e che ci sono voluti quasi ottanta anni, una serie di sentenze della Corte Costituzionale relativamente recenti (1997, 2000, 2002 e 2005) e la legge 85/2006 per arrivare alla completa depenalizzazione di questo “reato”.

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