di Rosa Ana De Santis

E’ il 13 dicembre 2006 quando a New York vede la luce la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità. In quel documento c’é il progetto di far nascere in ognuno degli Stati membri un osservatorio nazionale che si curi della condizione delle persone disabili. Il 30 marzo 2007, l’allora ministro della solidarietà sociale, Ferrero, aveva apposto la sua firma alla convenzione. Il governo italiano aderisce così alla Convenzione. Su questo si è acceso a Palazzo Madama il dibattito politico. Come sottolineato nella relazione introduttiva di Luigi Compagna, finora non esisteva uno strumento vincolante internazionale sulla condizione della disabilità. Ed è abbastanza vero che, fintanto che un problema d’inserimento sociale (che nei fatti esiste ancora) viene affidato unicamente alla sensibilità personale senza un‘investitura e un riconoscimento formale, rischia di rimanere ben nascosto nel privato, lontano dalla vita degli uomini e delle donne normali. Quelli che possono attraversare una strada vedendo l’omino sul semaforo colorarsi di verde, che salgono le scale dei loro uffici, delle scuole o dei centri commerciali. Proprio quelli che hanno dimenticato il privilegio, dispensato senza alcun criterio di merito e solo per casualità di natura o della vita, di essere “normali”.

Si rischia, così com’é avvenuto, di fare ben poco per abbattere le barriere della popolazione normale e quelle architettoniche. Quando la politica e le sue sedi iniziano a vedere e riconoscere l’identità di un problema privato e pubblico, allora, anche solo questo, basta a far uscire dal buio. Lo stato del Vaticano non ha dato il suo assenso al disegno di legge sulla ratifica ed esecuzione della Convenzione nel nostro Paese, perché nel testo non è inserito un divieto “esplicito”all’aborto.

A tanto può arrivare uno “stato teocratico e a-democratico”, come lo ha definito la senatrice dell’Italia dei valori Patrizia Bugnano. Sacrificare tante vite, delegare storie segnate da discriminazioni alla pena dei confessionali e delle sante messe, togliendo alla politica ogni ambizione morale e ogni attesa di giustizia, ogni responsabilità. Il peccato di sempre: credere che siano i religiosi e i fedeli gli unici a lavorare sull’uguaglianza. Lo smacco - quasi indolore ormai - di tanta storia democratica.

E invece no. All’articolo 3 del ddl è prevista la nascita di un Osservatorio: 40 membri, in carica per 3 anni con 500 mila euro di finanziamento. Su questo si sono scagliati furiosi soprattutto i radicali. Lamentando l’origine dei fondi, sottratti per beffa e paradosso al fondo delle politiche sociali, nonchè la scarsa presenza di disabili all’interno dell’osservatorio. Ma i loro emendamenti non sono stati accolti. La maggioranza ha accettato invece un ordine del giorno del PD. All’unanimità il testo è passato. E ora il governo ha 6 mesi di tempo per predisporre quanto necessario a recepire la Convenzione e a riferire dell’”idoneità e funzionalità” dell’Osservatorio.

Quello che abbiamo è il riconoscimento ufficiale e istituzionale che un problema c’è. Profondo e irrisolto. E che la politica, quella seduta in Parlamento, deve farsene carico. Perché come ogni questione legata a diritti e giustizia, le appartiene. Garantire accesso uguale a cariche e posizioni, allo studio, alla vita pubblica, intervenire sulle discriminazioni e le disuguaglianze non é lavoro da lasciare alle sole associazioni, agli uomini pii, ai volontari, all’implicito senso della vita politica democratica. E’ dall’alto che c’era bisogno di dare forma a un problema serissimo e quasi clandestino costituendo un’autorità specifica. Uno stato di diritto ha il preciso dovere di intervenire con il cosiddetto welfare a sanare quello che la sorte ha reso ingiusto in modo irrimediabile.

Sembra banale, retorico il commento. Ma solo in sede di analisi teorica. Non lo è più quando il caso prende le sembianze di due occhi di ragazzina, 21 anni e una sedia a rotelle di quelle motorizzate. Annarita Marino, qualche giorno fa, è stata messa alla porta dal direttore dell’Oviesse di Imperia. Perché le ruote che le permettono di muoversi intralciano, disturbano gli acquisti dei normali shopper. Annarita non ha denunciato, amareggiata e contornata dalle sue amiche, ha chiamato i carabinieri. E “scioccata”, come si è definita, ha ascoltato le scuse penose del direttore. Che non voleva, che non aveva visto, che era preoccupato del “motorino”- così l’ha chiamato - in giro per il suo negozio. Che certamente non l’ha fatto perché Annarita è disabile. Sembra di sentire la canzone di quelli che non sono razzisti, ce l’hanno solo con i neri.

Banale finchè una presentatrice Rai non deve scusarsi quando uno dei suoi ospiti, in prima serata, criticando la performance di un ballerino sotto le stelle lo boccia con la sentenza di danzare un “merengue poliomielitico”. Superficialità, leggerezza, analfabetismo puro e atavico, volgarità a iosa. C’è da augurarsi che l’Osservatorio, quasi al di là di ciò che riuscirà a fare, servirà ad accendere la luce. Su un problema che sembra sempre risolto - o quasi - nella buona coscienza collettiva, finché non li vediamo per strada, finché non dobbiamo invitarli ai meeting di lavoro, finchè non li vedi e punto. Perché, chiusi dietro le finestre delle case, ci fanno sentire - quasi - normali.

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