di Giovanni Cecini

Internet, videofonini, digitale terreste e satellitare: viviamo ormai nella società della comunicazione totalizzante. Nessuno può dire più di non essere informato o di non poter partecipare anch’egli al mondo della divulgazione attraverso Youtube o altri pirotecnici mezzi mediatici. Ovviamente ciò è valido solo nella parte dove la tecnologia esiste ed è fruibile come bene prevalentemente superfluo, avendo già risolto problemi come la fame, la sete, l’igiene e la difesa dagli agenti atmosferici. Premesso questo, pare quasi scontato che nel nostro Paese, a titolo d’esempio, vista la grande diffusione d’innumerevoli metodi di divulgazione, dalle apparecchiature elettroniche più sofisticate alle ormai primitive carta e penna, ciascun individuo possa parlare, ascoltare, leggere e comprendere notizie e dati resi dagli altri.

Se crediamo questo, incappiamo in un grave errore, perché se facciamo i conti con le competenze base degli italiani, si scopre che una parte considerevole degli abitanti della Penisola è - secondo i canoni odierni - completamente analfabeta. Circa il 15% saprà anche scrivere o leggere, ma ciò non è sufficiente affinché esso possa comprendere un testo o sappia riprodurre per iscritto il suo pensiero. Questo elemento non dovrebbe apparire sorprendente se circa il 36% possiede solo un titolo di licenza elementare o neppure quello, e se il tasso dei laureati non arriva al 10%.

La notizia è sconcertante, ma in un momento storico in cui l’attenzione generale è rivolta alla crisi economica, al sempre più schizofrenico dibattito politico, ai problemi di ordine pratico e materiale, una calamità sociale di questo tipo passa in sordina e suscita poca considerazione. Tullio De Mauro, insigne studioso di lingue e linguaggi, lancia in toni molto preoccupati l’allarme, prefigurando uno scenario dove solo il 20% della popolazione nazionale sarebbe capace di apprendere o esprimersi in maniera adeguata attraverso la forma scritta dell’italiano.

Le colpe e le origini di questo dramma culturale e umano sono molteplici e ricche di significato antropologico: dall’uso distorto delle forme lessicali negli sms o nelle rapide risposte delle chat, fino all’eccessivo impiego di formule derivanti dall’inglese o da qualsiasi altra spuria variante linguistica. Ecco quindi come, non solo l’italiano “vivo” cambia pelle, ma gli italiani in generale perdono l’uso della propria lingua sia nel lessico, sia nelle costruzioni verbali.

Di fronte quindi all’ardore orgoglioso dei dialetti come forma demagogica di cultura locale, l’idioma nazionale è vittima di un analfabetismo funzionale o di ritorno dalle proporzioni impressionanti. A tutto ciò si aggiunge che la scuola, come l’università, prediligono in modo prevalente il canale orale. La gran parte degli studenti, che frequentano gli atenei, s’imbattono nell’elaborazione di un testo scritto complesso, solamente al momento della tesi di laurea, riducendo gran parte delle prove intermedie con carta e penna a una scelta multipla, importata direttamente dai quiz televisivi.

Tutto questo apparato si va a sommare alla già consistente presenza sul suolo nazionale di numerose comunità straniere, che coltivano i propri idiomi alloglotti, ma si trovano nella quotidianità ad approcciarsi con un mondo linguistico senza regole e dove l’incomunicabilità divampa oltre qualsiasi confine. In queste condizioni sembrerebbe quindi ipocrita e inutile richiedere un esame di lingua, storia e cultura nazionale agli stranieri, per ottenere la cittadinanza, quando la stragrande maggioranza degli italiani sono privi di una solida base d’identità comune in fatto di comunicazione.

Per chi ha i capelli grigi, forse tornano alla mente le lezioni del maestro Alberto Manzi e del suo “Non è mai troppo tardi” che, in una televisione in bianco e nero, insegnava ad adulti senza preparazione scolastica, i rudimenti di educazione sociale attraverso la lingua. In un Paese, come l’Italia, che è regredito culturalmente sotto ogni punto di vista, tale esperimento tornerebbe d’attualità, in barba a tutta quella serie di pantomime pseudo culturali, più vicine a un ciarpame mediatico, che a vera diffusione del sapere. Come si dice in questi casi, meglio ridere che piangere. Per questo ci possiamo consolare con la spassosissima e senza senso lettera di Totò e Peppino: «Abundantis abundantum… che poi dicono che siamo provinciali, siamo tirati».

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