di Rosa Ana De Santis

Le scene sono quelle di un girone dantesco. L’Africa degli schiavi è sotto gli occhi di tutti e gli immigrati fuggono da Rosarno scortati dalla polizia. Lasciano gli agrumeti e i terreni su cui hanno lavorato anche più di dieci ore al giorno, sottopagati e minacciati dai padroncini italiani. Su quelle strade che ora abbandonano in un esodo di paura, era nata qualche giorno fa la loro protesta.

Quella che il Ministro dell’Interno aveva sbrigativamente spiegato come un effetto collaterale da eccesso di tolleranza. La scintilla della guerriglia urbana scoppia per il ferimento di un ragazzo del Togo, rifugiato politico con regolare permesso di soggiorno, da parte di persone non identificate. Ma la disperazione di una rivolta che diventa da subito un assedio viene da lontano. Dall’omertà diffusa sul feroce sfruttamento in cui sono abbandonati e dalla segregazione in cui sopravvivono.

In queste ore i neri della protesta scappano da una spietata caccia all’uomo partita tra gli abitanti subito dopo la rivolta. I casolari sperduti di campagna, in cui erano costretti a vivere in condizioni bestiali, sono diventati celle per topi. La task force del Viminale ha come obiettivo quello di portarli via tutti da Rosarno verso i centri di accoglienza di Bari e Crotone o altrove, per quanti hanno regolare permesso di soggiorno.

Spranghe, taniche di benzina, fucili, i primi gravi feriti di questi giorni documentano una pagina pericolosamente somigliante alle più note persecuzioni xenofobe e razziali. Per le violenze delle ultime ore sono stati arrestati 5 dei sette immigrati fermati e 3 italiani, uno dei quali figlio di una delle più note cosche locali.

La rivolta degli immigrati rompe la tregua sociale vigente a Rosarno e a Gioia Tauro. Quella che vede la n’drangheta dominare indisturbata gli affari e le terre e che nella manodopera a basso costo degli stranieri clandestini, trova il suo business più facile. Niente di sommerso e di invisibile, dicono alcuni abitanti. I nuovi lavoratori neri li vedono tutti, così come i capannoni della vergogna che soltanto adesso il governo ha deciso di smantellare. A Rosarno, in pochi giorni di guerriglia urbana, viene fuori l’intreccio scivoloso e incandescente tra potere locale e mafia, tra clandestinità ed economia, tra il governo della regolarità propagandata e la banale routine degli affari guadagnati sulla pelle degli immigrati. Il succulento piatto della clandestinità.

La condanna della feroce intolleranza da parte degli abitanti contro i lavoratori stranieri arriva, ma troppo sottovoce, dalle Istituzioni. Sottovoce soprattutto quando, già nel maggio del 2009, un’inchiesta della Direzione Investigativa Antimafia documentava per i lavoratori di Gioia Tauro condizioni di estorsione e riduzione in schiavitù. Ma è più facile raccontare la rivolta rabbiosa con i cassonetti dati alle fiamme e i video di una città barricata dietro le finestre di casa che non raccontare tutta la storia. Quella dei diritti negati ai più deboli, dati in pasto alle cosche locali. Quelle di cui per prima sono diventate vittime nel tempo gli agricoltori del posto.

La fuga degli stranieri in pericolo restituisce alla collettività l’immagine più cruda e più autentica dell’intolleranza che scorre nelle vene degli italiani. Intolleranza per chi lavora duramente sulle nostre terre. Per chi può farlo solo se disponibile ad essere trasformato in uno schiavo. Sugli agrumeti di Rosarno, in un passato che oggi sembra preistoria, altri lavoratori hanno combattutto le loro battaglie per i diritti del lavoro. Battaglie di cui non si ha più memoria, mentre mafie e istituzioni sembrano riuscire a convivere in pace in una reciproca comoda cecità.

Tutto bene fintanto che le vittime non decidono di rompere il patto dell’omertà. Ma se hanno il colore di pelle sbagliato e non sono cittadini italiani è facile chiudere la vicenda con la tesi dell’immigrazione difficile. E l’inferno che è qui, nella nostra terra, continua a rimanere il paradiso promesso ai tanti, tantissimi disperati pronti per il prossimo viaggio della speranza.

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