di Rosa Ana de Santis

Il 16 maggio é dedicato ai malati di cancro. Una giornata per parlare di loro e di una malattia che non molti anni fa era innominabile, infarcita di una mistica del male e di un simbolismo che parlava solo di morte, quasi allegoria di una colpa e di una condanna senza scampo. Le storie dei pazienti raccontano invece non di un’esistenza interrotta, ma di una vita capovolta e mutata in profondità.

La malattia oncologica, proprio per la modalità della sorveglianza, per l’incertezza della prognosi e per la variabile altissima della risposta individuale alle terapie, richiede uno sforzo di convivenza con la malattia che può anche durare anni e che può trasformare la patologia clinica, anche quando fosse scomparsa dal corpo, in una condizione dell’animo e in uno stato mentale. Il cancro come un virus dei pensieri, perché è l’incontro eccellente, senza mediazioni e diplomazie, con le domande fondamentali della vita.

La sensazione di precarietà esistenziale che scatena la diagnosi diventa spesso l’origine però di una nuova disponibilità alla vita in cui l’interiorità, le relazioni e i sentimenti diventano la finalità del quotidiano, i primi strumenti di guarigione e gli ingredienti fondamentali del futuro.  I percorsi, com’è ovvio, sono diversi. I numeri dello studio realizzato dall'Associazione di volontariato Aiscup-Onlus, dall’Idi-Irccs di Roma e dall'Ospedale Sant'Andrea, dicono che il 54% dei malati di cancro ritiene molto importante la spiritualità nella propria vita. Dove spiritualità non è necessariamente religione o fede confessionale, ma cura di sé, forza della mente, interiorità. La problematizzazione psico-emotiva della nuova condizione di vita, diventa strumento per sopportare meglio la sofferenza e per rivendicare la dignità della malattia.

Il rifiuto dell’estraniazione dalla società e l’ostinazione a recuperare canoni normali di vita hanno bisogno - indica il risultato dello studio - di questo motore spirituale. Lo studio ha riguardato 220 pazienti chemioterapici dell’Idi. Più donne che uomini e molte di loro giovani. La maggior parte ha dichiarato di desiderare una vita serena, una ridotta percentuale ha elaborato un rifiuto della fede e molti di questi pazienti si definivano già credenti prima della malattia. Lo studio ora si spingerà ad analizzare il rapporto tra malattia e spiritualità in paesi caratterizzati da una cultura religiosa che non sia cristiana e sarà esportato ai centri oncologici di Gerusalemme e di Teheran.

Spiritualità nella malattia non significa preghiere: vuol dire piuttosto mettere al centro l’umanizzazione delle cure, l’integrazione tra medicina e psicologia al fianco del paziente e l’attenzione continua alla non esclusione della persona ammalata nel sistema sociale e nel mondo del lavoro. Solo tutti questi elementi aiutano il paziente a elaborare la malattia come un passaggio, una battaglia da vincere, una condizione in cui non si aggiunga all’invalidità fisica la depressione di un’esclusione sociale.

I diritti sul posto di lavoro, lo snellimento della macchina burocratica in cui s’imbatte un paziente quando entra in ospedale, la creazione di corsie di prenotazioni preferenziali, l’esenzione e il riconoscimento dell’invalidità, è tutto quello che la politica deve fare per queste persone. Il cancro è una malattia sempre più diffusa nelle società occidentali, per longevità della popolazione, per diffusione di dannosi stili di vita, cattive abitudini e soprattutto fattori d’inquinamento spesso colpevolmente tollerati. Una sempre più accurata conoscenza inoltre del dna e dell’identità genetica permette ormai di elaborare una mappatura precisa e quasi individuale di rischio e predisposizione ai tumori. Tutto questo impone l’obbligo di trattare il cancro come una malattia certamente grave e seria, ma di normalizzarla. Il cancro è curabile anche quando non è guaribile in modo definitivo. Non è fuori dalla vita e non è la bestia nera.

Le terapie sono sempre più personalizzate e la clinica pone sempre più attenzione allo studio e al contenimento degli effetti collaterali. La percezione di sé - e quindi l’immagine del proprio corpo nella fase chirurgica e in quella delle cure - non sono più considerati dettagli ininfluenti, ma condizioni importanti per la guarigione. L’estetica, ad esempio, nelle patologie oncologiche femminili non è più interpretata come un vezzo o un aspetto coadiuvante, ma è messa al centro della stessa chirurgia. Tantissime testimonianze raccolte dall’AIRC documentano come dopo la diagnosi di cancro si possa, pur con tutta la fatica immaginabile, recuperare normalità.

Spiritualità nel cancro non è necessariamente risposta al perché sia accaduto. Non è necessariamente fede. Né è un percorso risolto di significato e di disegno provvidenziale. Più semplicemente è la trasformazione di un fatto occasionale e grave in un cambiamento anche interiore della vita e, spesso, nel raggiungimento di un’esistenza più raffinata, meno elementare e di maggiore autocoscienza. Nessuna didattica della sofferenza, ma la convinzione che l’esistenza sia naturalmente fatta di questi improvvisi incontri con il dolore e che l’ostinazione di vivere non sia altro che la saggezza della normalità messa accanto alla velleità dei sogni.

Soltanto per questo, per parlare di cancro, di cura e di corpo, non si può non parlare di spirito. Le persone vanno curate tutte intere, il loro mondo, i pensieri, le relazioni e i desideri vivono insieme a loro questo assedio e vivono pensando al giorno in cui saranno liberi. La guarigione inizia anche così, anche quando non può essere scritta su nessuna cartella clinica. Il 16 maggio è dedicato a queste storie di straordinaria normalità.

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