di Valerio Di Stefano

L'entusiasmo seguìto all'istituzione delle caselle di posta elettronica certificata (PEC) per i cittadini, dopo l'annuncio trionfalistico del Ministro Brunetta e gli immancabili “disguidi tecnici”, dovuti a fantomatiche e non ben meglio precisate richieste di accesso in quantitativi massicci, pare essersi spento dopo la fiammata iniziale, rivelando una serie di contraddizioni e inefficienze che non fanno altro che ampliare il divario tecnologico e dei diritti del cittadino nei confronti della Pubblica Amministrazione.

La Posta Elettronica Certificata, in realtà, è da anni ampiamente disponibile, in forma capillare, ai cittadini, sia pure a pagamento. Non costituisce, dunque, di per sé, una novità. Probabilmente il “nuovo” ostentato era la gratuità della risorsa per il cittadino. Ma anche quest’aspetto si sgretola al confronto coi fatti.

Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, recante "Disposizioni in materia di rilascio e di uso della casella di posta elettronica certificata assegnata ai cittadini", in vigore dal 6 maggio 2009, prevede che ogni cittadino che lo desideri e ne faccia richiesta possa ottenere una casella di posta elettronica certificata gratuita e senza oneri (art. 2).

Del resto, non poche perplessità aveva destato il comma 4 dell'articolo 3 dello stesso testo, che prevedeva letteralmente: “La volontà del cittadino espressa ai sensi dell’art. 2, comma 1, rappresenta la esplicita accettazione dell’invio, tramite PEC, da parte delle pubbliche amministrazioni di tutti i provvedimenti e gli atti che lo riguardano” .

Dunque, con la richiesta della assegnazione di una casella di posta elettronica certificata il cittadino non solo dimostrava di volersi dotare di uno strumento, ma accettava anche che tutto ciò che veniva inviato dalla Pubblica Amministrazione rivestisse carattere di ufficialità (una comunicazione da una casella di PEC a un'altra, come è noto, ha il valore legale della classica raccomandata con ricevuta di ritorno). Con l'aggravante (naturalmente a carico del cittadino), che i documenti inviati alla Pubblica Amministrazione richiedono spesso la firma digitale, di cui nella quasi totalità dei casi il cittadino è sprovvisto, per poter dimostrare l'identità di chi formula una determinata richiesta o fornisce un determinato documento.

In breve, anche se il cittadino usa la PEC per rivolgersi al proprio Comune per richiedere un intervento dei Vigili Urbani, qualunque altra Pubblica Amministrazione diversa dal suo comune può notificargli qualunque documento via PEC (ad esempio, un atto giudiziario, una comunicazione da parte del fisco e quant'altro). Tutto questo in nome di una supposta trasparenza e abbattimento di costi e tempi di gestione a beneficio di tutti.

Il risparmio sui costi, appare evidente, è tutto a beneficio della Pubblica Ammistrazione che, già dal 2009, con l'introduzione della legge n. 2, deve comunicare con i suoi dipendenti attraverso la PEC. Il che non significa solo che il dipendente del Comune di Vibo Valentia possa e debba ricevere qualsiasi comunicazione dal suo ente di servizio nella casella PEC di Stato, ma anche - e soprattutto - che se lo stesso dipendente di Vibo Valentia dovesse incorrere in una contravvenzione del Codice della Strada nel territorio del Comune di Orgosolo, il Comune di Orgosolo è tenuto a notificargliela via PEC.

Ed è qui che il sistema comincia ad andare in tilt: nella Pubblica Amministrazione manca personale, risorse e know-how per gestire il baraccone inutile che il Ministro Brunetta ha costruito su un sistema di comunicazione indubbiamente utile (anche se costituisce un'anomalia del tutto italiana). Non si tratta di ripetere che basta una casella di posta elettronica tradizionale, come succede in qualsiasi altro Paese dell'Unione, perché è evidente che la necessità di certificare il messaggio e il mittente sono sacrosante; si tratta di rendere effettivamente chiaro e trasparente il rapporto tra cittadino e Pubblica Amministrazione che, in questo momento, appare assolutamente squilibrato a favore di quest'ultima.

Perché se il settore pubblico può interfacciarsi con il cittadino, non sempre (anzi, quasi mai) è vero il contrario. L'art. 34 della legge 18 giugno 2009, n. 69, recante Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile, aggiungendo il comma 2-ter all'art. 54 del D. Lgs. n. 82/20905 (Codice dell'Amministrazione Digitale) ha stabilito che le amministrazioni pubbliche, che dispongono di propri siti, sono tenute entro il 30 giugno 2009 a pubblicare nella pagina iniziale del loro sito web un indirizzo di posta elettronica certificata, a cui il cittadino possa rivolgersi per qualsiasi richiesta che riguardi il codice digitale della pubblica amministrazione.

A quasi un anno dall'entrata in vigore di quel provvedimento si continua ad assistere a una vera e propria diserzione da parte degli Enti Pubblici all'obbligo previsto. Comuni, Scuole, Istituzioni Pubbliche, Università, Ministeri, Tribunali, Uffici che dispongono di un sito web, difficilmente forniscono la loro casella di posta elettronica certificata, che il cittadino deve andarsi a cercare, se esiste, su altre risorse (www.indicepa.gov.it).

Un caso eclatante, in questo senso, è quello del sito ufficiale del Ministero dell'Istruzione e della Ricerca (www.istruzione.it) che continua gelminianamente a fornire un indirizzo di posta elettronica tradizionale per i contatti con il pubblico senza dare nessuna garanzia che i messaggi siano stati effettivamente ricevuti.

Il collasso finale del sistema si verifica alcuni giorni fa, quando, tra l'indifferenza della stampa e dei mezzi di informazione, lo stesso Ministero dell'Economia blocca alcune disposizioni del nuovo Codice dell'Amministrazione digitale, tra cui gli articoli 10 e 20 bis. Secondo il Ministero, l'assegnazione di un recapito di Posta Elettronica Certificata ad ogni cittadino per i contatti con l'Amministrazione Pubblica, avrebbe un significativo impatto sull'organizzazione delle Amministrazioni stesse.

In parole povere, il cittadino avrebbe tra le mani un'arma che la P.A. non sarebbe minimamente in grado di gestire (ogni Amministrazione avrebbe l'obbligo di protocollare qualsiasi comunicazione). Basti solo pensare alla paralisi che si avrebbe se ogni impiegato comunicasse, come sarebbe suo diritto, la propria condizione di malattia. Potrebbe farlo in qualunque ora (comprese quelle notturne), avrebbe un’immediata ricevuta della propria mail valida a tutti gli effetti legali e non avrebbe nessun altro obbligo, se non quello di recapitare successivamente la certificazione medica.

Se il personale addetto alla segreteria non controlla la PEC perché l'ufficio apre solo pochi minuti prima del turno del dipendente, o perché - si veda il caso - non è capace di gestire il sistema, tutto crolla miserevolmente: il dipendente risulta assente, lo si chiama a casa con ulteriore aggravio di costi per accertarsi che sì, aveva dato regolare comunicazione, ma spesso non si è in grado di sostituirlo (si prenda in considerazione l'assenza di un insegnante in una scuola).

Dulcis in fundo, l'obbligo delle Amministrazioni pubbliche di comunicare tra loro con la PEC, prevedere “ulteriori oneri finanziari e organizzativi“, per cui le pubbliche amministrazioni potranno continuare a comunicare tra di loro tramite telefono, raccomandata tradizionale, posta e fax a spese dei cittadini, in uno sperpero di denaro pubblico che ha come unica giustificazione l'incapacità di interfacciarsi con la tecnologia.

 

 

Pin It

Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy