di Vincenzo Maddaloni

Ma che angoscia! Con l'elezione di papa Francesco è ormai «da mezzo secolo che a Roma non siede più un papa italiano». Se ne lamentava con molta passione sul Corriere della Sera di qualche giorno fa Ernesto Galli della Loggia. Il quale s’affannava a spiegare che « la Chiesa italiana riflette quello che sembra il destino del Paese. Non esprime più, perlomeno nei suoi luoghi «alti» e ufficiali, momenti importanti di dibattito e di elaborazione culturali». Insomma, un guaio di tali dimensioni da togliere il sonno. Cosicché il rapporto sugli squilibri macroeconomici pubblicato in quegli stessi giorni dalla Commissione europea  che sottolineava “la perdita di competitività e l’alto indebitamento” dell’Italia,  diventava una notizia di secondo piano, non meritevole di attenzione più di tanto.

Infatti, nonostante il terremoto politico che il Paese sta vivendo, prevale l’abitudine di non andare fino al fondo delle cose davvero importanti, nell’illusione della classe politica di continuare a regnare come s’è sempre fatto. Pertanto accade che per smorzare le rivendicazioni dei movimenti sociali, per distogliere le genti dal porsi domande, si continuino a creare delle coinvolgenti distrazioni, demonizzabili a piacimento, si strumentalizzino i conflitti culturali, ci si soffermi sui personaggi esotici come Francesco I. Ne è un esempio appunto  il lamento di Ernesto Galli della Loggia che rinsalda l’attitudine - tutta italiana - di privilegiare l’indignazione piuttosto che la riflessione, soffermandosi su argomenti di secondo piano quando le priorità sono ben altre.

Che sia una priorità l’Italia malata di poco lavoro e di povertà in aumento non possono esserci dubbi. Se serve qualche cifra l’Istat ne ha date in abbondanza, a partire da quel 19,5 per cento di italiani che già nel 2011 erano a rischio povertà; una percentuale che arriva al 28,4 per cento se si aggiunge il rischio di esclusione sociale. E sulle terapie quale accordo c’è? Il minor peso delle imposte su lavoro è una ricetta che piace a molti: ai «saggi» che hanno appena finito il loro lavoro di proposta per un prossimo governo; così come ai sindacati e alle imprese, anche se ovviamente i primi vogliono vedere soprattutto salire il netto in busta paga e i secondi chiedono invece che scenda il lordo da pagare. Sarebbe un terreno sul quale l’approfondimento e d’obbligo perché un governo possa muoversi, anche se le risorse necessarie dovrebbero venire da difficili trattative europee per ammorbidire i criteri di bilancio pubblico.

Sicché sempre più grande diventerebbe la responsabilità dei Paesi fondatori dell’Unione europea con le democrazie consolidate come Francia, Inghilterra, Germania e Italia appunto. Ma se questa parte d’Europa, come hanno rilevato mille e uno sondaggi, vive il presente con fastidio e guarda al futuro con pessimismo, sempre meno avrà stimoli e voglia di occuparsi di quel che le accade intorno. Eppure  non è difficile immaginare il malessere delle genti dell’Europa “allargata”, quelle che fino all’altro ieri, dietro la cortina di ferro, ambivano al benessere occidentale sperando nella fine del comunismo sovietico e che ora si ritrovano prigioniere della povertà, turbate dal crollo delle usanze tradizionali, furenti per le promesse non mantenute dall’Occidente, spesso disperate, spesso costrette a lasciare il proprio Paese perché si ritrovano in casa la disoccupazione che prima non conoscevano.

E’ l’Italia industrializzata -non certamente la Grecia - con la politica in stallo quella che più di altri paesi crea un malessere diffuso, il  timore di  un qualche cosa di imprevedibile e ineffabile che ora si trova in accordo e ora in disaccordo con il sentimento di costruire programmi condivisi, sicché l’Europa non sa cosa l’attende e l’Italia ha tutti gli occhi addosso.

Tuttavia il problema Italia non deriva dalla nostra incapacità ad anticipare, ma dalla nostra reticenza ad agire. Si tenga a mente poi che i metodi per uscire dalla crisi raccomandati dai numerosi economisti si sono tutti dimostrati inefficaci economicamente e del tutto inadatti a eliminare le ragioni culturali e politiche di questa crisi. Per prima cosa andrebbe spiegato alla comunità democratica che cosa è esattamente l’interesse comune, poiché più del bene comune è l'interesse comune a tenere insieme i cittadini.

Lo sa benissimo il M5S, che ha prosperato su questo sentimento ma ora scopre che non lo sa gestire. Infatti, per determinare qual è l'interesse comune abbiamo bisogno di comprendere quali sono i nostri interessi particolari o di gruppo. Abbiamo anche bisogno di individuare delle priorità e di dare un carattere gerarchico ai nostri interessi. Soltanto un consenso sulla gerarchia delle priorità da realizzare permetterà di fare progressi, ben oltre la semplice correzione della situazione attuale. Ma per ora sembra impossibile perché l'incapacità della politica tradizionale di trovare soluzioni stabili pone le condizioni per un ulteriore aggravamento della crisi economica e di conseguenza farà lievitare la protesta contro la politica tradizionale.

Stando così le cose non è fantapolitica quella del filosofo polacco Marcin Król quando scrive sul settimanale Wprost (Il Time polacco) che: «Tutte le vie di ascesa dell'attuale classe media, per lo più giovane, sono bloccate da miliardari, da vecchi o da gente che sembra tale a un ragazzo di venticinque anni. Questa situazione è esplosiva. È sbagliato credere che dei giovani arrabbiati contro il sistema, ma privi del linguaggio abituale dei partiti politici e dei movimenti politici organizzati, non siano capaci di portare a termine una rivolta organizzata. Una rivoluzione non utilizza un linguaggio politico. La rivoluzione grida, urla, il suono di una rivoluzione è caotico, ma perfettamente udibile».

Marcin Król che da poco ha pubblicato Europa w obliczu konca ("L'Europa di fronte alla fine"), non è ottimista perché spiega: «I nostri leader politici continuano a non rendersi conto di essere seduti su un barile di polvere da sparo. Non lo capiscono, troppo preoccupati dalla sola idea che li ossessiona: tornare alla stabilità entro dieci-trent’anni. Non sanno che nella Storia non si torna mai indietro».

Sicuramente i politici italiani - se non tutti, almeno una parte - coltivano questa illusione perché, come ha scritto Aldo Grasso sul Corriere della Sera «non passa giorno che i capigruppo dei grillini, Lombardi e Crimi, non inciampino in qualche gaffe, non sfiorino il ridicolo, non dimostrino di essere maldestri. Questi sono dei pasticcioni e dei presuntuosi. Roberta Lombardi non si tira mai indietro: un giorno strologa di «fascismo buono», un altro si avventura, senza conoscere la materia, sull'articolo 18, un altro ancora definisce «una porcata di fine legislatura» la decisione del governo di stanziare 40 miliardi affinché la Pubblica amministrazione saldi i debiti con i fornitori…».

Naturalmente Lombardi e Crimi siedono sugli scranni del Parlamento perché il M5s ha stravinto tra i giovani (41 per cento). Infatti, se da un punto di vista strettamente elettorale il successo di Grillo è trasversale (sia per quanto riguarda la provenienza politica, sia per l'età media) è però innegabile che sono i giovani di 20-30 anni i protagonisti del M5S: sono loro gli attivisti, sono loro a costituire l'humus culturale e il braccio tecnologico del Movimento, sono loro, in gran parte, a essere stati eletti.

Non a caso  Marcin Król  ricorda che le rivoluzioni scoppiano per abbattere la barriera generazionale o semplicemente contro il dominio dei vecchi. Si tenga a mente che i capi della rivoluzione francese erano dei trentenni, mentre l'età media dei partecipanti al congresso di Vienna (1815) che ristabilì l'ordine conservatore in Europa era di oltre sessanta. Beninteso, gli attuali dirigenti europei hanno per lo più fra i 50 e i 60 anni, ma se si tiene conto dei progressi della medicina «è molto probabile», avverte Marcin Król, «che tra vent’ anni Merkel, Cameron, Tusk e Hollande saranno ancora al loro posto. A meno che non vengano spazzati via da una rivoluzione».

Naturalmente, ci sono i pretesti per una rivoluzione. I tagli di bilancio che si sono susseguiti non soltanto in Spagna e in Grecia, ma anche in Francia e nel Regno Unito, come in Italia del resto, hanno generato una drastica riduzione delle garanzie sociali in materia di diritto del lavoro, di pensioni, di disoccupazione, e stanno creando di conseguenza una generazione di giovani privi di prospettive di un impiego stabile, senza i presupposti materiali per poter mettere su famiglia. Nei paesi colpiti più duramente dalla crisi, come Spagna o Portogallo, dovrà passare almeno una generazione prima che si riesca a compensare il calo del livello di vita. Non è che in Italia sia di gran lungo diversa la situazione, se vi si aggiunge poi il lamento del professor Ernesto Galli della Loggia siamo alla catastrofe.

«Cresciuto nel benessere ma alle prese con la disoccupazione, comprensibilmente schifato dalla politica che ha conosciuto fino a oggi e costituzionalmente incosciente, facilmente entusiasta circa le potenzialità ancora inespresse di un mezzo nuovo che percepisce come “suo”. Questo è l'identikit del giovane militante del Movimento 5 Stelle, questa è la chiave per comprenderne il successo - tutt'altro che inaspettato - per quelli della mia età», scrive Nicola Predazzi , 26 anni, nel saggio “Il grillismo come revanchismo generazionale” pubblicato dal Mulino.

In poche righe egli riassume la Storia, il destino della generazione di Internet. «Non siamo - spiega - proprio nativi digitali, ma orfani della Storia, abbiamo capito che questa è l'èra della Rete. Finalmente una svolta epocale in grado di coinvolgere e unire! Il profumo è quello della rivoluzione, soprattutto per chi, come me, è nato a cavallo tra due egemonie tecnologiche: dopo essere stati per tutta l'infanzia e l'adolescenza spettatori televisivi, ecco che gli attori diventiamo noi, su YouTube e sui social networks; basta una webcam o un blog e la rivoluzione copernicana è compiuta: io divento l'artista, il giornalista, la star, il politico».

Non voglio fare il “laudator temporis acti”, ho sempre detestato chi diceva: “Ai miei tempi”, ma se qualcosa spicca in questa affermazione generazionale è l’assoluta mancanza di ogni senso della misura alla quale dovremmo fare l’abitudine. Altro che “nuovo ‘68”. Non sanno nemmeno cosa sia il ’68  questi appartenenti al popolo del “copia e incolla”, che s’inventano i ruoli e le professioni senza sapere da che parte si comincia, per poi stupirsi se nessuno li assume. Il giovane Predazzi parla di «tragico analfabetismo democratico dei miei coetanei» e di «incapacità rivoluzionaria dei rivoluzionari di oggi». La colpa? Dei genitori naturalmente, perché, spiega Predazzi «entrambe queste nostre carenze  derivano dall'Italia in cui siamo nati e cresciuti». Insomma, ce n’é per tutti noi che apparteniamo all’altra generazione, quella che non avrebbe saputo governare.

www.vincenzomaddaloni.it










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