di Rosa Ana De Santis

Il papa argentino parla alle donne della Chiesa in un’udienza privata, riservata alle suore dell’Unione internazione delle superiori generali. Si rivolge alle coppie non sposate ribadendo che la Chiesa deve accogliere tutti. E’ così che i cambiamenti che attraversano la cronaca della Chiesa non possono non suscitare riflessioni su quello che accade, o non accade, nel mondo fuori dal Vaticano.

Alle 800 donne consacrate papa Francesco ha lanciato un appello “a essere madri e non zitelle!”. Già, proprio così. In una battuta secca ed essenziale, ben incarnata di comune sentire, ha voluto dire e ribadire alle donne della Chiesa che la castità non può diventare chiusura al mondo e alla vita, ma deve piuttosto essere fecondità spirituale verso gli altri: non i propri figli come accade per le madri biologiche, ma tutti i figli.

Papa Bergoglio, dai contenuti al linguaggio, morde così ai fianchi la tradizione consolidata e dispensa già pillole di quello che sembra assumere i contorni di un vero e proprio Concilio Vaticano III, per ora vissuto nelle piazze, nei discorsi ai fedeli e non, o non ancora, nelle segrete stanze.

Parla di tenerezza, liberà e affettività: moti dell’animo, termini e diritti che erroneamente sono stati banditi nel modo di intendere la castità sessuofobica da tanta storia, nemmeno troppo remota, della Chiesa soprattutto per le donne che lì, come altrove, hanno sempre pagato una quota doppia di censura e di discriminazione rispetto ai maschi consacrati.

E se questo appello annuncia l’inizio di una possibile rivoluzione interna alla Chiesa più attenta al ruolo delle donne e finalmente sdoganata dal retaggio medievale della censura del corpo, parallelamente, con perfetto spirito sociologico, il papa ha ribadito l’urgenza e la necessità di adattarsi ai tempi accogliendo nella comunità cattolica le coppie non sposate, ancora adesso non previste nella forma.

Escluderle, questo il parallelismo di Bergoglio, significa tornare ai tempi andati quando non si poteva andare nelle case degli atei o dei socialisti. Basta pensare alla storia italiana per cogliere quanto certi veti abbiano condizionato la vita del paese con strascichi non del tutto estinti.

Numerosissimi i genitori che non sono uniti in matrimonio e fanno battezzare i propri figli e di fatto fanno crescere la propria famiglia nello spirito della Chiesa. Tagliarli fuori significa non osservare la società che cambia e non prestare il giusto servizio alla comunità dei fedeli. Accoglienza, abbraccio, umiltà sono i valori in nome dei quali papa Francesco si scaglia contro i consacrati carrieristi e arrampicatori. Gli esclusi dalla Chiesa sono più loro che i conviventi o le famiglie di fatto. Questa la deduzione che qualche mal di pancia ai prelati dello stato non potrà non procurare.

La nomina di papa Francesco ha dimostrato di saper accettare sul serio la sfida del rinnovamento molto più di quanto mostrato finora dalle nostre Istituzioni. Eppure l’impronta del conservatorismo e del dogmatismo è più giustificabile tenga strette le briglie di uno stato confessionale come il Vaticano.

Così anche qui, dove lo Stato arranca a riconoscere i dico o i pacs, la Chiesa supera i dogmi del catechismo e si lancia in una ricognizione lucida della società e delle sue trasformazioni. Un vuoto che nella Chiesa poteva essere parzialmente riscattato dalle norme della dogmatica e che nello Stato costituisce solo una nuda e cruda inadempienza senza giustificazione alcuna.

Forse il discorso alle donne e il riconoscimento delle nuove famiglie di fatto non rappresentano ragionamenti disgiunti, ma il segno di un nuovo pensiero teologico che al centro ha scelto di mettere i problemi reali e i bisogni. Ricostruendo la fede dal basso e adottando la trasparenza di un linguaggio audace e semplice.

Come audace la scelta di volere santo uno come Romero. La speranza è che un nuovo modello di fede cosi coraggioso da azzerare il volto peggiore della Chiesa sia un modello di metodo utile e condizionante, per una volta verso la modernità, anche dall’altra parte del Tevere.




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