di Rosa Ana De Santis

I dati vengono dal Consiglio d’Europa: l’Italia ha le carceri con un problema drammatico di sovraffollamento e si colloca al terzo posto dopo la Serbia, la Grecia e l’Ungheria.  La triste media nazionale vede 147 detenuti dietro le sbarre contro i 100 previsti, con l’aggravante di condizioni spesso disumane di vita carceraria. I numeri dell’Europa rimbalzano dietro l’ennesima notizia della cronaca che nei giorni scorsi ha visto morire a San Vittore un uomo di 78 anni cui mancavano sei mesi per scontare tutta la pena.

Nonostante le segnalazioni del medico sulle sue gravi condizioni di salute l’uomo è rimasto in cella dopo un infarto, un diabete e un’insufficienza renale che lo aveva quasi paralizzato. L’avvocato ha scoperto per caso della sua morte e con lui i familiari dell’uomo.

Il tema delle carceri e della loro umanità è stato spesso strumentalmente portato in primo piano da poche forze politiche e con fortissima prudenza, visto che i diritti dei detenuti non portano voti e non colpiscono certo la sensibilità dell’opinione pubblica. Le istituzioni dovrebbero farsene carico come emergenza democratica, dato che in Italia la pena non può essere mai disgiunta dal recupero del detenuto.

La popolazione carceraria è costituita per lo più da stranieri con a carico reati minori, non certo da ergastolani mafiosi, e proprio per questa ragione è ancor più grave che nessuno sia riuscito a metter mano a questa emergenza che non va risolta con la costruzione di nuove carceri, ma con una depenalizzazione di alcuni reati per rendere intanto le condizioni dietro le sbarre umane e compatibili con una reale possibilità di recupero. Come previsto dalla nostra Costituzione e non dalla solita sinistra garantista.

Stupefacenti e furti sono in cima alla lista della detenzione e basta riflettere sull’assurdità della legge Fini - Giovanardi, per venire a uno degli esempi più eclatanti, che prevede la detenzione per il possesso di droghe leggere,  per capire sia perché le carceri siano piene, sia quanto nessuno si preoccupi seriamente del recupero di un ragazzo consumatore di cannabis, nel momento in cui l’unica premura è portarlo dietro le sbarre. Del resto gli alcolizzati o i ludopati, nuova patologia di gran moda, non vengono messi in carcere per essere recuperati dalla dipendenza che li affligge,  anche quando – specie nel primo caso -  questa potrebbe essere nociva verso la collettività.

Sulla questione delle carceri e dei detenuti l’Italia non mostra grande abilità, né dentro casa né fuori. Anche se in questa seconda circostanza il problema ha a che vedere con i rapporti internazionali e il dialogo tra sistemi giudiziari diversi,anche qui i numeri sono sconcertanti: sono 3.103 detenuti italiani all’estero di cui ben 2.400 in attesa di giudizio. Persone letteralmente dimenticate in cambio di qualche caso eclatante, ben cavalcato per emozioni a buon mercato da portare in urna elettorale,  come quello recente dei marò.

Se sul versante internazionale il problema è meritevole di un’analisi ad hoc, dentro i confini la questione delle carceri dovrebbe innanzitutto prevedere, tanto per iniziare a parlarne con serietà, come ricorda Giovanni D’Agata, fondatore dello sportello dei diritti, l’istituzione di un Garante dei detenuti con sedi in tutte le regioni in cui sono presenti strutture detentive. Fondare quest’istituzione significa innanzitutto dare visibilità e dignità istituzionale ad una quota della popolazione che per quanto rea rimane parte integrante del Paese con diritti inalienabili di cui, volente o nolente come la legge richiede,  non ci si può non occupare.

Non c’è dubbio che il tema delle carceri in Italia paghi anche il prezzo di una scarsa evoluzione culturale, anche della società civile. Si confonde il senso sacrosanto di giustizia e il rigore della pena con la vessazione indiscriminata, tipica del giustizialismo da popolino che vuole vendetta, che non distingue tra uno straniero clandestino e uno spacciatore.

Proprio per arginare questo atteggiamento pericoloso e inefficace le Istituzioni avrebbero una responsabilità in più: portate i valori di una civiltà democratica ovunque e soprattutto in quegli spazi oscuri della società e impegnarsi piuttosto per pene severe e rigorose, spesso scontate all’inverosimile per sgombrare le carceri con indulti e buon mercato. Il tutto per far posto a qualche povero cristo, magari straniero e schiavo di qualcun  altro, che, ben nascosto alla conoscenza e alla memoria di tutti ci farà sentire giusti solo per aver messo due ceppi in più.

Non importa come e a chi e per arrivare a cosa. Come se la giustizia non fosse quel valore e quel principio morale altissimo che è. Come se un colpevole smettesse di essere un uomo. Come se essere giusti, è proprio il caso di dirlo, fosse un’impresa semplice e alla portata di tutti e non solo dei migliori.


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