di Mazzetta

Dalla caduta del muro di Berlino la politica mondiale ha dovuto affrontare l’urto del trionfo americano, presto cavalcato da quanti hanno pensato di sfruttarlo per diffondere il liberismo sfrenato come modello unico dello sviluppo planetario. L’urto è stato possente e non privo disastrose conseguenze ed ha portato al dilagare di una “nuova politica” anche in Europa, tracimando poi senza grosse resistenze anche in Russia e Cina, fino a corrodere l’India. La “nuova politica” è praticata su basi non ideologiche (perché si fonda sul superamento delle ideologie, inteso come annichilimento di qualsiasi teoria diversa dal “money first”) ed ha determinato lo storico sorpasso del potere economico su quello politico. Non è che prima della caduta del muro la politica non dipendesse dall’economia, ma erano ancora tempi nei quali gli interessi economici dei singoli o dei gruppi d’interesse potevano essere condizionati da superiori interessi politici. Erano anche tempi nei quali si doveva mantenere, agli occhi delle opinioni pubbliche, una “superiorità etica” del modello capitalista occidentale rispetto a quello comunista sostenuto dal blocco sovietico e dalla Cina. Con il muro sono caduti anche questi condizionamenti e la politica nei sistemi sedicenti democratici è diventata definitivamente una cosa da ricchi. Svanite le grandi organizzazioni di massa, il consenso può essere organizzato solo attraverso il controllo dei media. Un controllo che, ove non sia un “bonus” personale come nel caso-limite di Berlusconi, costa cifre da capogiro.

La politica diventa quindi un confronto-scontro tra masse monetarie, tra azionariati diversi che sono in gara per comprare l’attenzione dei politici ai loro interessi, questo quando non decidano direttamente per la “costruzione” di un politico dal nulla. Il tramonto delle grandi organizzazioni politiche di massa ha infatti azzerato qualsiasi meccanismo di scelta, selezione e controllo del personale politico da parte delle cittadinanze che, quando va bene, sono chiamate alla scelta tra due personalità capofila di cartelli di prosaicissimi interessi a breve termine e non certo tra progetti ideali o nobili tensioni verso il miglioramento delle condizioni degli amministrati.

Non serve uno scienziato politico per dimostrare che questo metodo di selezione del personale politico è matematicamente e inevitabilmente nefasto per l’interesse delle collettività amministrate, non molto meno di quello decisamente più darwiniano che origina le dittature; eppure questo modello trionfa raccogliendo pochissime critiche anche negli ambienti liberali o riformisti, che troppo spesso si riempiono la bocca di architetture istituzionali o sociali poco meno che visionarie, stante l’assoluto disprezzo per tutto quanto non sia una tattica utile a breve termine per acquisire denaro o altre utilità.

Anche ove non esista un controllo dittatoriale sui mezzi d’informazione, si registra una loro occupazione e gestione da parte dei potentati economici. La situazione determina un meccanismo perverso anche nella patria del libero mercato, meccanismo che può essere ben evidenziato dall’analisi delle cronache californiane relative alla battaglia per l’approvazione della Proposta 87. Un’analisi le cui conclusioni dovrebbero spingere all’urgente ricerca di un metodo alternativo.

Succede in California che essa, se approvata, richiederà l’introduzione di una maggiore tassazione dei profitti delle aziende petrolifere che operano nello stato; il denaro raccolto servirà a finanziare progetti basati su fonti alternative a zero emissioni. Come tutte le leggi, la Proposta 87 ha sostenitori e detrattori che si battono perché venga approvata o rigettata; come in tutti i casi nei quali una legge minaccia i profitti di un settore economico, i più interessati attori economici elargiscono somme a quei rappresentanti politici che lo avversano o, addirittura, si fanno animatori di campagne di segno contrario. Negli Stati Uniti c’è una gloriosa tradizione di campagne delle corporation contro leggi a protezione della salute pubblica o a favore delle riduzioni della spesa pubblica (tranne che nel settore degli armamenti). Grazie a una legge per limitare alcuni aspetti scandalosi del finanziamento dei partiti americani, si è però permesso che i finanziamenti per una singola questione non avessero tetti di spesa. Così scatta anche il paradosso per il quale una corporation può detrarre dalle tasse i soldi spesi per non farsi aumentare le tasse e quello per il quale il rapporto costi/benefici del finanziamento politico sarà sempre a vantaggio di soggetti portatori di interessi privati. I finanziamenti sotto il codice delle Entrate n° 527 sono così esplosi, diventando il modo con il quale aggirare il limite posto ai finanziamenti diretti ai partiti. Si finanzia una “causa” e così si aggirano i limiti al finanziamento ai partiti o ai singoli politici.

La California è uno stato molto particolare nel panorama americano, decisamente in controtendenza se è vero che una proposta analoga fu scartata quando presentata al Congresso, ma non lo è solo per il diverso incipit culturale nell’affrontare le scelte politiche. In California c’è Hollywood e questa, oltre ad incarnare l’industria culturale di massa, rappresenta anche un serbatoio di personaggi che hanno trovato la ricchezza rincorrendo sogni molto diversi da quelli che maturano sulla East Coast.

Così, non appena la Proposta 87 ha cominciato la sua discussione, le aziende petrolifere interessate dalla tassa hanno avuto la ferale notizia che i costi della campagna sarebbero stati del tutto fuori dal comune. Un simpatico (nell’occasione) milionario californiano, Stephen L. Bing, erede di un impero immobiliare e produttore cinematografico, ha buttato sul piatto della campagna a favore della proposta 40 milioni di dollari, ai quali se ne sono aggiunti altri 6 da parte di altri soggetti economici e di privati. I produttori petroliferi ( in testa Chevron, EXXON e Shell), che avevano stanziato 45 milioni di dollari per evitare un salasso preventivato in 485 milioni di dollari all’anno di maggiori tasse, non l’hanno presa bene, anche se hanno evitato qualsiasi commento.

Senza l’intervento di Bing la questione avrebbe visto il consueto scontro tra Davide e il Golia energetico; negli Stati Uniti i contributi delle corporation petrolifere alla politica umiliano quelli di tutti gli altri comparti economici e contribuenti privati. Con la somma di 91 milioni di dollari investiti nelle campagne contrapposte fin dall’inizio del confronto, la battaglia sulla Proposta 87 batterà sicuramente il record in materia stabilito per la Proposta 5 (riguardante l’autorizzazione dei casinò all’interno delle riserve indiane.) ferma a 93 milioni di dollari. Da notare al riguardo che anche gli studi che fanno lobbying per l’industria petrolifera denunciano (non senza compiacimento) l’inflazionamento dei costi provocato da questa inattesa interferenza.

Lasciando la Proposta 87 al suo destino, è bene analizzare la dinamica che concerne la sua approvazione.

La Proposta 87 non è una legge che chiami in causa l’etica. Si tratta semplicemente di una legge con la quale uno Stato decide di aumentare le tasse sull’industria estrattiva ( che gode da anni di guadagni record ); si tratta semplicemente di un adeguamento del prezzo richiesto alle aziende che estraggono idrocarburi, che riallinei le somme ricevute dai titolari di quelle risorse (lo stato in questo caso) ai prezzi di queste materie prime sul mercato, che negli ultimi anni sono aumentati a dismisura senza grossi benefici per la parte pubblica del business estrattivo.

La parte che prevede di destinare queste risorse ad investimenti energetici non-oil o a emissioni-zero è coerente sia con la sensibilità ai temi ambientali, in California storicamente più elevata che nel resto degli USA, che con il più prosaico aumento d’interesse verso i danni provocati dal riscaldamento globale e, più in generale, dall’inquinamento ambientale ormai suicida. La Proposta 87 assumerebbe anche un valore strategico per la California, andando a costituire un fondo al quale attingeranno le annunciate riconversioni di aziende della Silicon Valley dall’elettronica all’industria dell’energia solare. Ma la cifra della contesa è comunque meramente redistribuiva e come tale chiama in causa l’amministrazione federale e le sue scelte sempre e comunque a favore delle compagnie petrolifere.

Oltre al già ricordato “no” a una maggiore tassazione degli utili-record, l’amministrazione Bush si è segnalata anche per aver spinto lo sfruttamento dei parchi naturali, per aver mantenuto e difeso un’esenzione fiscale alle compagnie che trivellano il Golfo del Messico concessa quando il petrolio era a 20 dollari al barile e anche per aver desistito in una causa che vedeva i governi statali e quello federale chiedere alle compagnie i diritti d’estrazione arretrati, evasi dichiarando semplicemente estrazioni inferiori al reale. Una protezione a tutto campo degli interessi delle compagnie petrolifere americane, confermata anche da fatti come il veto alla vendita di Unocal ai cinesi, sal big deal con Gheddafi che ha assicurato il controllo del petrolio libico e dai progetti che si stanno concretizzando in merito al petrolio iracheno, anche se i “politici” iracheni non sembrano ancora del tutto convinti che la svendita in regime di monopolio del petrolio nazionale a Washington sia conveniente per il paese.

Lo scontro è quindi esclusivamente sul quantum ridistribuire, scontro che si è tramutato immediatamente nel quantum investire in appoggio o contro la proposta.

Qui è già facilmente evidenziabile un limite strutturale di un sistema del genere. La battaglia per una legge impone tanti maggiori trasferimenti di risorse verso i professionisti della politica e dei media, quanto maggiori sono le cifre in discussione. Questo flusso di trasferimenti, dato il delta abissale tra la capacità di spesa dei titolari degli interessi privati e quella dei sostenitori dell’interesse pubblico, pone in posizione di naturale vantaggio l’interesse delle corporation.

Questo vuol dire che in un sistema del genere chi voglia affermare l’egoistico interesse al profitto degli azionisti e dei consigli d’amministrazione di certe aziende (profitto che è legittimo interesse sociale di ogni società commerciale) si trova in situazione di obiettivo vantaggio sulla collettività, in quanto capace di riversare più denaro in un processo di formazione del consenso, processo che risponde in maniera direttamente proporzionale ai versamenti.

Che il sistema non possa funzionare per un difetto strutturale ce lo dimostra proprio il caso dell’intervento di Bing nella discussione sulla Proposta 87. Infatti, anche quando intervenga un cavaliere bianco che metta mano al portafogli a favore dell’interesse collettivo, si producono effetti diseconomici e assurdi, il più nefasto dei quali è l’inflazione dei costi della politica, che penalizza ancora di più chi non detiene capacità di spesa e la sua capacità di rappresentare idee e istanze alla collettività. Tutto questo senza sapere se alla fine la Proposta 87 passerà o se vinceranno le compagnie.

Dalle tribolazioni della Prop. 87 in California al processo di formazione del consenso nel ventunesimo secolo il passo è breve. Ove il mainstream non sia controllato in virtù di poteri dittatoriali e plateali minacce all’integrità personale, i principali canali di formazione del consenso restano saldamente nel controllo delle grandi concentrazioni economiche nazionali e transnazionali; in tutto il mondo i colossi dell’energia sono i principali finanziatori delle parti al governo, quando non ne sono emanazioni dirette come nei regimi autocratici.

La tensione al controllo delle fonti energetiche e a massimizzare i profitti di questo controllo sembra prevaricare qualsiasi altro livello d’analisi, ma è semplicemente la diretta conseguenza della maggiore capacità di spesa che, anche nell’attuale assetto politico delle cosiddette democrazie occidentali, si traduce nella supremazia reale di chi può spendere di più. Un fenomeno che oltre ad espellere dal dibattito le voci prive di sponsores comporta anche la completa cancellazione dallo stesso dibattito di tutte le cause o istanze che riguardino temi dagli accenti diversi, per non parlare di quelli anche solo vagamente etici ma privi di riflessi economici.

La tensione al profitto provoca distorsioni pericolosissime, ove sia l’unica costante a determinare l’azione politica; prova ne sia che i ricorrenti allarmi ecologici che annunciano disastri sempre più prossimi e sempre più imponenti vengono bellamente ignorati da chi teme che gli affari possano essere turbati da pretese estranee all’oggetto sociale. Un muro d’indifferenza che non si regge sul caso, ma che da anni è rinforzato e alzato da soggetti ben identificabili.

Un recente studio statunitense ha evidenziato come all’aumentare del costo delle materie prime, aumenti il potere delle autocrazie e dei regimi repressivi, individuando le cause del fenomeno nell’aumento della capacità di spesa di quanti controllano le fonti, grazie alla quale è possibile loro comprare il consenso e corrompere o invitare alla spartizione finanche gli avversari politici. L’aumento delle entrate all’interno di un sistema-paese dominato da un’autocrazia o da un sistema politicamente corrotto non fa che aumentare il delta tra le risorse disponibili a chi detenga il potere e quelle a disposizione degli altri attori politici.

Nel caso della Proposta 87 ( e di altre Proposte in discussione, come la 90 che introdurrebbe dei limiti all’esproprio per pubblica utilità, nel piatto della quale ha messo i piedi Howard S. Rich, un immobiliarista di New York ) c’è l’assoluta evidenza del fatto che la difesa del profitto e del potere di influenza politica sono per Chevron & friends la stessa cosa. Si tratta della più solare evidenza che il sistema abbia deragliato dalla rappresentanza impostata sul principio del “un uomo, un voto” in favore della rappresentanza “one note, one vote”, un voto, una banconota.
Una evidenza che, alla luce di un’esperienza capitalista bicentenaria, dovrebbe allarmare un po’ tutti, in particolare avendo in mente che i prezzi delle materie prime sono destinati ad aumentare in parallelo al rarefarsi delle risorse e all’esigenza di preservarle dallo sfruttamento suicida. Un meccanismo che sovrintende anche allo sfruttamento dell’acqua, un settore nel quale le aziende leader nel trattamento e commercializzazione della risorsa impiegano le stesse politiche care alle multinazionali del petrolio, ma anche quello delle politiche agricole, della sanità e della merce-lavoro.

Ne discende che anche nelle “democrazie occidentali” la fase di formazione del consenso, o più propriamente quella normativa, sia completamente sussunta dagli interessi economici più determinati e solvibili nel comprare consenso (o pronunce di giustizia ), ben lontana quindi dall’assicurare gli orizzonti ambiti nei rispettivi roboanti dettati costituzionali. Non si tratta solo di una diffusa corruzione abbinata a una pessima qualità del personale politico o di una fase di decadenza fisiologica; si tratta invece di visibilissimi difetti di sistema, difetti che pongono sicuramente il sistema fuori dal recinto della santa “democrazia”. Difetti che prima o poi andranno corretti, perché affidare il destino e le vite di qualche miliardo di esseri umani all’avidità di pochi eletti è una non-scelta (perché in effetti questa transizione di potere in capo all’economia non è stata statuita ne discussa a chiare lettere in nessuna sede istituzionale) che l’umanità pagherà molto cara.

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